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Sirio 18 - 24 novembre 2024
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Milano

«Facciamo parte di una Chiesa che è una»

Il richiamo dell'Arcivescovo nell'incontro con il clero della Zona I al Collegio San Carlo. In gennaio e febbraio gli incontri nelle altre Zone (il mattino con preti, diaconi e presbiteri appartenenti a Istituti religiosi e Società di Vita apostolica, la sera con laici e consacrati)

di Annamaria Braccini

14 Gennaio 2019

Un incontro di formazione con l’Arcivescovo per ogni Zona pastorale, rivolto al clero (compresi i diaconi e i presbiteri appartenenti a Istituti religiosi e Società di Vita apostolica) alla mattina e ai laici la sera. Iniziano da Milano, con un gran numero di preti che affollano il Teatro San Carlo, i tradizionali appuntamenti promossi dalla Formazione permanente del clero.

L’articolato intervento dell’Arcivescovo Mario – affiancato dal Vicario di Settore monsignor Ivano Valagussa e da quello di Zona monsignor Carlo Azzimonti – parte da una premessa che è al cuore dell’idea stessa del cammino proposto e suona come richiamo al concetto di sinodalità: «È chiaro che la formazione ha significato se vi è qualcuno disposto a lasciarsi formare. Il rischio della formazione permanente è che diventi un esercizio un poco marginale. La formula di quest’anno prevede la mia relazione, perché l’Arcivescovo è colui che deve svolgere l’esercizio e il servizio della comunione. Tutti i preti devono sentirsi obbligati a questa comunione: non siete liberi professionisti, ma collaboratori del Vescovo. Essere autoreferenziali o, comunque, vivere percorsi che possano prescindere dalla Chiesa nel suo insieme, rende meno efficace la missione».

Un’idea di Chiesa che sta particolarmente a cuore al Pastore ambrosiano: «Tengo che circoli non tanto qualche idea nuova – io ho solo il Vangelo -, ma un senso di appartenenza, per cui si riprenda questo intervento nelle diaconie, nelle parrocchie, nelle comunità. Sento necessario il mio servizio di comunione anche per dare verità al vostro essere preti. Se si prescinde dalla comunione con il Vescovo si ha un problema di identità. Questo servizio di comunione lo esercito anche con la mia presenza capillare sul territorio, come auspico che voi partecipiate a celebrazioni in Duomo e a eventi diocesani», aggiunge in riferimento alla Visita pastorale avviatasi. «Facciamo parte di una Chiesa che è una», sottolinea.

Ma qual è il volto di questa Chiesa? Quale Chiesa siamo e cosa vogliamo diventare, non da un punto di vista quantitativo, ma qualitativo? Da qui i quattro tratti di questo volto.

Essere cristiani è una grazia

Anzitutto, «dimorare nello stupore che è un atteggiamento ascetico, spirituale, di fronte all’evento sempre nuovo: la Pentecoste che continua a essere attiva nelle Comunità rendendole più liete. Essere cristiani è una grazia, prima dei problemi da affrontare, dei doveri da adempiere, delle verità da imparare, delle procedure da osservare. La convocazione di tutti i popoli è una festa da celebrare, una sorpresa che commuove e trafigge il cuore. Il Sinodo che abbiamo celebrato è ancora l’evento di Pentecoste. Come si legge nella Lettera agli Efesini, “Non siete più stranieri, né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio”». Insomma, lo stupore che cambia la vita e «che può essere custodito pregando i Misteri gaudiosi del Rosario, pur nella consapevolezza di ciò che accade e delle letture politiche, sociologiche, storiche, cronachistiche che possono leggere il convergere di molti popoli come un problema da affrontare, una minaccia da cui difendersi, un fenomeno da regolamentare».

Assumere positivamente il cambiamento

La seconda indicazione è «Stare a proprio agio nella storia».
«La storia dei nostri nonni e dei nostri padri ci dice che essi si sono trovati a loro agio. Lo spirito ambrosiano ci suggerisce di affrontare le situazioni. Ci hanno insegnato che ci si può rimboccare le maniche e vedere cosa si può fare. I talenti si possono trafficare, le risorse si possono trovare. La nostra Chiesa cambia anche se non lo vogliamo, perché cambiano il mondo e i cristiani, perché la missione non è una ricetta da applicare, ma deve confrontarsi con situazioni e insidie. Noi continuiamo a confidare in Dio: per questo trovarci a nostro agio nella storia non dipende da una presunzione, ma dal realismo». Convergere nella comunione, avere tolleranza per stili e mentalità diverse all’interno non di un gruppo, ma di una Chiesa che cammina: «Per questo abbiamo sviluppato la riflessione sulla sinodalità. La stima vicendevole, la capacità di ascolto, la tolleranza, sono efficaci in una positiva assunzione del cambiamento come nostra responsabilità e non come un destino da subire». L’esempio non può che essere Gesù. «a proprio agio nella storia, padrone di se stesso e fiducioso in Dio. Preghiamo i Misteri della luce del Santo Rosario per lasciarci ispirare da Maria nel contemplare il modo con cui il Figlio di Dio ha imparato a diventare figlio dell’uomo».

Non rassegnarsi, ma reagire

Una terza sottolineatura è quella, drammatica, del «forte grido».
«La rassegnazione non è una parola cristiana. Di fronte alla morte, Gesù ha gridato la sua protesta, di fronte al soffrire innocente, ha espresso la sua compassione e ha steso la mano per toccare il male ripugnante e liberare il malato; di fronte alla religione pervertita a mercato, ha reagito con rabbia e parola profetica. I discepoli continuano lo stile di Gesù e protestano contro il male, reagiscono all’ingiustizia, si accostano, con solidale compassione, al dolore innocente, lottano per estirpare la povertà, la fame, le malattie; denunciano i comportamenti irresponsabili che creano emarginazione, sfruttamento, inquinamento». Opere concrete, sotto gli occhi di tutti nelle nostre terre – scandisce l’Arcivescovo -, con iniziative di vicinanza alle carceri, ai malati, ai poveri, alle solitudini. «È il modo che hanno i cristiani di protestare e di creare una società alternativa, anche senza grandi risorse. Ma questo non ci autorizza a non avere quella lettura critica della storia che vede la responsabilità dei Paesi ricchi nei confronti dei Paesi poveri. Le migrazioni sono un fattore epocale, ma rimane l’enigma di perché non si possa produrre una politica internazionale, europea, italiana che si prenda a cuore i poveri e che orienti interventi giuridici e sociali. Serve un impegno corale per farci voce del grido dei poveri». Come mettere in pratica tutto questo? «Con percorsi di sobrietà, forme pratiche di solidarietà, una sensibilità cattolica che non tollera discriminazioni. La meditazione e la preghiera dei Misteri dolorosi del Rosario tiene viva la compassione per il Giusto ingiustamente condannato e incoraggia a continuare la testimonianza e la parola profetica, che non può mancare nella Chiesa di oggi e di domani».

Il modello di Maria

Infine, con l’espressione dell’Apocalisse che dà il titolo agli incontri – «Ti mostrerò la promessa sposa, la sposa dell’Agnello» -, il quarto passo: il compimento, «la dimensione escatologica, la promessa in cui crediamo. In ciò i preti più anziani possono essere testimoni. Per questo la Chiesa e io ne abbiamo bisogno, perché testimoniano, con il corso degli anni, che la vita non è un finire in niente, ma il desiderio più ardente di essere rivestito della gloria del Signore. Noi alziamo lo sguardo a contemplare la sposa dell’agnello come un punto di riferimento che ci ispira. Maria, Madre della Chiesa, ci viene proposta come modello della Madre che tutti i popoli possono invocare e che per tutti intercede. La preghiera dei Misteri gloriosi può essere un aiuto a condividere la speranza della gloria».

La riflessione su Milano

Nella sua riflessione l’Arcivescovo ha svolto un’ampia digressione su Milano: «Nella città di Milano è importante, proprio per la sua singolare unità amministrativa e ampia articolazione territoriale, imparare a immaginare come la Chiesa, i preti e i laici, possano aiutare a capire cosa sta succedendo, impostando un dialogo con le istituzioni per affrontare i problemi nella loro giusta dimensione. Attualmente mi pare che vi sia una lettura positiva di Milano, attraente per i capitali, per le impostazioni architettoniche e urbanistiche. È una città che si vanta di essere lanciata nel futuro, di essere inserita nel circuito delle metropoli dove è bello vivere, in cui la qualità dei servizi rende più facile la vita. La Milano con le sue eccellenze nell’Università, negli ospedali, nei servizi, nelle pratiche degli affari. Nello stesso tempo, tuttavia, c’è anche la lettura delle situazioni sociali, dei luoghi di particolare degrado, di problematiche complicatissime - delle molte solitudini di anziani e di persone che non trovano soccorso -, di tanti problemi localmente molto acuti, anche se, magari, circoscritti». Queste due immagini - della città attraente e funzionante e delle sacche di miseria e di solitudine - non possono eliminarsi l’un l’altra, osserva l’Arcivescovo. La questione prioritaria, ovviamente, è come affrontare i problemi: «Nel Discorso alla Città 2017 ho parlato dell’“Arte del buon vicinato” come rimedio, tessitura dei rapporti locali, piccoli, quotidiani. In questo contesto, deve esservi un protagonismo della comunità cristiana come di fatto già c’è in molti casi. L’arte del buon vicinato non è il quartiere modello, ma una tessitura di rapporti. Occorre una lettura più localizzata della situazione, creando una grande forma di consultazione che abbia come protagoniste le istituzioni locali. Il quartiere, la circoscrizione, il Decanato potrebbero dire qualcosa. Tutti possono farlo: i preti, i membri delle associazioni, le Forze dell’Ordine, la scuola, i Vigili. Non si tratta di costruire un’alleanza che diventi una specie di congresso, ma di guardarsi in faccia e di stimolare il territorio». Progetto condiviso, nel quale la Chiesa - come l’Arcivescovo aveva già sottolineato in un dialogo con il sindaco Giuseppe Sala - farà la sua parte «per essere, sufficientemente, un soggetto operativo». «Noi non restiamo indifferenti. Vogliamo essere una Chiesa che ha la capacità di leggere le situazioni, che si lascia commuovere e alza il suo grido di fronte alle ingiustizie globali e del nostro territorio».