Come teologia e filosofia possono contribuire ad affrontare, con maggiore consapevolezza, la crisi della modernità? E qual è il contributo che queste scienze antiche, ma assolutamente necessarie anche oggi, possono offrire al dibattito pubblico? Non sono interrogativi semplici, quelli con i quali mercoledì 23 ottobre si aprirà solennemente l’Anno accademico 2019-2020 della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e dell’Istituto superiore di Scienze religiose di Milano, alla presenza dell’Arcivescovo, Gran Cancelliere della Facoltà, mentre la prolusione sarà affidata al rettore dell’Università degli Studi, il filosofo Elio Franzini. A spiegare il perché della scelta di questi temi è il preside dell’Ateneo teologico, don Massimo Epis.
Da dove nasce l’individuazione del tema per l’avvio di questo Anno accademico?
Nel Discorso alla Città del 6 dicembre 2018, significativamente intitolato «Autorizzati a pensare», l’Arcivescovo formulava l’auspicio che le Università e le Istituzioni culturali potessero «coltivare un senso di responsabilità che ci impegna a un esercizio pubblico dell’intelligenza». Abbiamo pensato che l’intervento del rettore della Statale di Milano all’inaugurazione dell’Anno accademico fosse un’occasione preziosa per esercitare, anche visibilmente, questa corresponsabilità. Inoltre è per noi motivo di grande onore ospitare il rettore Franzini. Alla motivazione istituzionale si aggiunge, infatti, l’apprezzamento per i suoi studi nell’ambito della fenomenologia e l’interesse per l’elogio della filosofia, in ordine alla sua specifica responsabilità umanistica.
Quali saranno gli ambiti su cui verterà la discussione?
Lo spunto per il tema della prolusione – «Crisi del moderno e modernità della crisi. La responsabilità della filosofia e della teologia» – ci è stato offerto dalla riflessione che il professor Franzini ha esposto in una sua recente pubblicazione dal titolo Moderno e postmoderno. Un bilancio. Come scrive l’autore, «si affaccia una nuova cultura»: si tratta allora di capire quali ne siano i tratti caratterizzanti, secondo una prima risposta già espressa nel volume, laddove viene indicato quanto «la crisi – che oggi chiameremmo postmoderna – sia una crisi della modernità, in cui le differenze si sono così parcellizzate e miniaturizzate da non essere più in grado di trovare un minimo comun denominatore».
In una società come la nostra, che appare sempre più costruita a comparti incapaci di comunicare tra loro, il problema è anche quello di far convivere e rendere feconde le differenze, alimentando pratiche virtuose di dialogo anche dal punto di vista intellettuale…
Siamo consapevoli che non possono esistere immagini uniche per la pluralità e le differenze, «nell’affastellarsi multimediale di pensieri frammentati», come spiega sempre il Rettore. Quindi è ancora possibile e ha ancora senso cercare un “centro”? Perché la dialogicità non si trasformi in confusione e in una negazione che non costruisce, ma che anzi distrugge, crediamo che vadano recuperati punti fermi comuni e condivisibili, ossia delle “costanti di senso”.
Come identificarle e con quale metodo?
Cercare un’anima è una condizione di possibilità per il pensiero, sia che esso si presenti come nomade, sia che cerchi un senso strutturale, usando i termini di Franzini. In questo contesto, ci chiederemo se non sia anacronistico fare appello a una indagine sulla verità e come, in rapporto al vasto compito culturale che ci attende quali Università, si determini la responsabilità specifica di una realtà accademica. In particolare, naturalmente, di una Facoltà teologica come la nostra, che oggi conta e forma circa 550 studenti.