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Sirio 18 - 24 novembre 2024
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Riflessione

È un castigo?

Quello del cieco nato è un episodio illuminante sull’attualità, per la scissione che Gesù compie tra peccato e malattia. E ci suggerisce di leggere anche questa pandemia come luogo di “manifestazione delle opere di Dio”

di don Luca CASTIGLIONIDocente presso il Seminario di Milano

20 Marzo 2020

Forse la domanda è prematura. Di fronte al fatto sconvolgente che ci ha toccati, anzitutto ci si è chiesti cosa stesse accadendo, per capire come reagire al meglio. Solo più avanti si approfondiranno i perché della pandemia in corso, non solo sbrogliando la matassa delle sue cause prossime e remote, ma anche osando la questione – ancor più ardita – del suo senso per la vicenda umana in questi inizi del terzo millennio.

Forse dunque la domanda è prematura, visto che siamo lontani dall’aver messo l’emergenza alle spalle: a chi oggi lotta per salvare vite umane quasi manca il tempo per mangiare, chissà se ne ha per porsi simili interrogativi. Eppure il dubbio già serpeggia. Forse perché il sospetto circa la bontà dell’ente superiore “che per brevità chiamiamo dio” è radicato nel cuore dell’uomo, che il senso di colpa attanaglia persino in quest’epoca disinibita, e che non si scrolla di dosso l’idea che “il signore arrabbiato il diluvio manderà”, persino in quest’epoca (presumibilmente) adulta.

E così, chi oggi tende le antenne per captare – nel flusso delle parole – la Parola, potrebbe ricevere l’impressione che essa non solo sia straordinariamente puntuale, ma che anche giochi d’anticipo.

La disgrazia e il peccato

Questa domenica, in effetti, davanti al cieco nato, i discepoli rivolgono a Gesù una domanda che esprime una posizione diffusa, ora come allora, e cioè che la disgrazia sia il castigo divino per un peccato. Secondo taluni, la malattia (il malanno, la disgrazia) è da intendersi come espressione della giustizia retributiva di una divinità che non tollera il peccato e lo sanziona, infliggendo ai colpevoli (o ai loro prossimi) un castigo.

Gesù non disprezza, né lascia cadere questa domanda dei suoi sul cieco nato, in cui risuona la nostra sul Coronavirus: «Chi ha peccato perché nascesse cieco?», perché ci toccasse una pandemia? Gesù affronta tale interrogativo, sì, però lo fa rovesciando completamente la prospettiva. Per lui non si tratta di cercare il colpevole di meritati castighi. Perché se le cause dei mali che toccano l’umanità sono in parte attribuibili all’uomo, in parte insondabili e misteriose, in ogni caso Gesù spezza il legame tra peccato e malattia. Egli afferma che le «opere di Dio» non si manifestano nella devastazione dell’umano, ma nella sua guarigione. Questa sola è la chiave di lettura autorevole – perché offerta da Gesù stesso – per interpretare quanto egli opera sul cieco nato, ridonandogli la vista. Ora, un aspetto che occorre sottolineare con vigore, in questo momento storico, è che tale prodigio ha potuto aver luogo solo con la partecipazione del cieco. La sua fede lo ha messo in cammino verso Siloe, come indicatogli dal Maestro, mentre ancora brancolava nel buio. Al contrario, gli occhi di chi rifiuta di cogliere in questa guarigione la manifestazione di Dio entrano in un’oscurità sempre più fitta, paralizzante.

Una sfida

Si tratta allora di raccogliere una sfida, ora che siamo ancora ciechi, ma già con il fango sugli occhi, e nelle orecchie l’invito a incamminarsi. La sfida è leggere questa prima vera pandemia nel tempo della simultaneità mondiale come luogo di “manifestazione delle opere di Dio” (cfr Gv 9, 3). Qui la fede mette la maiuscola e si specifica: del Dio di Gesù Cristo. Si tratta di un’operazione spirituale di vasto respiro, epocale, che domanderà senz’altro molto tempo, molta umiltà, molto silenzio, molto ascolto, molto confronto. Un’operazione che ciascuno dovrà scegliere di compiere, perché gli altri non potranno farla al posto nostro, anche se in essa potremo sostenerci ed essere sostenuti (già stiamo iniziando a farlo). Qui ci limitiamo a darle un piccolissimo impulso, mostrando come persino la punteggiatura possa aiutare a convertirsi.

Siete nelle mie mani!!

Allarmanti punti esclamativi esprimono la minaccia di un dio (teniamo la minuscola) che, nella sua inaccessibile superiorità, punisce le sue creature degeneri, osservando da fuori della mischia la loro penosa condizione. Penosa e però meritata: c’è quindi solo da star zitti e subire il castigo.

Siete nelle mie mani.

Mentre il vivere abituale va sfaldandosi e l’umanità, disarcionata dalle sue presunte sicurezze, si riscopre fragile e indifesa, il punto fermo esprime saldezza. Durata. Solidità. Stabilità. E ammonisce anche che questa fedele custodia di un Dio “ap-passionato” dell’umano cammino è l’unico sostegno che conviene cercare. Siete nelle mie mani, punto. Questo vi può bastare: vi basti. Se guardiamo ciò che sta accadendo con gli occhi di Gesù Cristo, esso non può apparirci come il castigo tremendo di un Dio in collera. Il Dio di cui Gesù Cristo è la rivelazione definitiva non distrugge le sue creature: soffre con loro, anzi per loro. Il Dio di Gesù Cristo è misericordia e la sua “passione” è riconciliarci a sé, mentre il suo dolore è vederci a terra, ancor peggio se incapaci di sollevare lo sguardo. Ciò non toglie che quanto sta accadendo possa essere assunto quale sua pedagogia, che impiega la storia e le sue dinamiche per invitare all’urgente conversione collettiva, “globale”, che adesso ci è necessaria, quanto e più del vaccino per il Coronavirus. Che sia proprio per questo che una simile prova non ci è stata evitata? Le ferite del mondo possono diventare per tutti occasione di rivolgersi a Lui, di convertirsi, poiché esse possono accendere la sete di ciò che non passa, e anche mostrare la necessità di essere solidali con tutti, nel pellegrinaggio che è la vita. Ad ogni modo, per essere educati è indispensabile essere docili: occorre scegliere di “stabilirsi nella stabilità” che Dio dona (che Dio è). La scelta di “rimanere in Lui” proprio mentre il flusso degli eventi ci agita, di “ascoltare la sua voce” che chiama a conversione proprio in mezzo al turbinare di parole di respiro medio-corto, di “cercarlo” come l’unico baluardo proprio mentre antiche sicurezze vacillano è dunque la sfida lanciata alla nostra fede:

siete nelle mie mani?