«Fra pochi giorni sarò prete, ciò vuol dire venire a contatto col mondo, nel confessionale, nella visita agli infermi, in mille altre opere. O Signore, fa’ in modo che come prete, nell’adempimento del mio ministero, non sia travolto dalle fatiche; rendimi forte, superiore ad ogni tentazione». Così scriveva nei suoi Diari il prossimo Beato, don Mario Ciceri, il 10 giugno 1924. Quattro giorni dopo, nella solennità del Duomo di Milano, sarebbe diventato prete, per l’imposizione delle mani dell’arcivescovo, il cardinale Eugenio Tosi.
E continuò: «Il prete deve essere maestro agli altri, specie nella predicazione, ma con che animo salirà il pulpito a condannare il vizio, se egli non ha domate le sue passioni? Con qualche voce insegnerà le virtù, se egli ne è del tutto privo? Insegnerà la pazienza, ma le sue parole non produrranno frutto, se egli è impaziente; se non è affabile. Predicherà l’amore a Gesù, alla purezza, ma le sue parole non scenderanno nel cuore di chi lo ascolta, se egli non è devoto, se egli non è puro. E se il prete nel suo ministero non produce frutti, tradisce Gesù».
La citazione è lunga, ma come spezzarla? È il cuore di un prete (quasi) novello che esplode d’amore per Dio e di coscienza della grandezza del suo ministero, della sua vocazione. In questi tempi di fango e menzogne scagliate contro i preti, forse ci fa bene leggere parole di fresco entusiasmo convinto. Don Mario, d’altra parte, riprendeva gli insegnamenti del nostro “massimo patrono”, Sant’Ambrogio, che nel suo De officiis ministrorum (I doveri dei ministri di Dio), insegnava: «Per chi cerca un consiglio, contano moltissimo la probità della vita, l’eccellenza delle virtù, l’esercizio della benevolenza, la prontezza nel darlo con affabilità. Chi infatti cercherebbe una sorgente nel fango? Chi per bere attingerebbe da un’acqua torbida?».
Con lo stile della mitezza
Don Mario pare avere presi sul serio gli insegnamenti di Ambrogio: «Di buon mattino affrettati in chiesa. Come è bello cominciare dagli inni e dai canti, dalle beatitudini che leggi nel Vangelo!». E così avveniva a Brentana! «Quale uomo dotato di sensibilità non arrossirebbe di concludere la sua giornata senza la recita dei salmi». E così faceva don Mario. Sempre con uno stile preciso, che tutti i suoi ragazzi ricordavano ancora dopo cinquant’anni, quando si fece il Processo per la beatificazione. Lo stile della mitezza, della benevolenza, che sant’Ambrogio insegnava: «Importante è la benevolenza che, anche se non dà nulla, offre di più e, pur non avendo alcun patrimonio, dona ad un maggior numero di persone. La benevolenza è come la madre comune di tutti, la quale stringe indissolubilmente le amicizie, è fedele nel consigliare, lieta nella prosperità, triste nella sventura, sicché ognuno si affida al consiglio d’una persona benevola più che a quello d’un sapiente. Togli dalle consuetudini degli uomini la benevolenza: sarà come se togliessi dal mondo il sole, perché senza di essa non possono sussistere i rapporti umani, come indicare la strada al forestiero, richiamare sui suoi passi chi sbaglia, dare ospitalità, offrire acqua a chi ha sete. La benevolenza è come una fontana che ristora l’assetato, come una lampada che spande la sua luce anche sugli altri». «Guai a me, se non amerò. Guai a me se amerò meno, io a cui fu tanto donato».
Don Mario desiderava essere così. Come desidera essere ogni prete, anche oggi.