«L’umanità è stanca e chi come noi, radunati per questo appuntamento in occasione della festa di sant’Ambrogio, ha responsabilità per il bene comune deve sentire il compito di procurare sollievo». È chiaro e diretto come sempre monsignor Mario Delpini nel Discorso alla Città dal titolo Lasciate riposare la terra. Il Giubileo 2025, tempo propizio per una società amica del futuro (leggi qui il testo integrale), pronunciato di fronte alle autorità locali convenute nella Basilica di Sant’Ambrogio il 6 dicembre, alla vigilia della festa del santo patrono.
L’Arcivescovo parte proprio dalle stanchezze diffuse: «Una sorta di spossatezza, come di chi non ce la fa più e deve continuare ad andare avanti. Ecco: la stanchezza mi sembra un punto di vista per interpretare la situazione».
Segni di stanchezza
Innanzitutto di cosa è stanca la gente? «La gente non è stanca della vita, perché la vita è un dono di Dio che continua a essere motivo di stupore e di gratitudine. La gente è stanca di una vita senza senso, che è interpretata come un ineluttabile andare verso la morte. È stanca di una vita appiattita sulla terra, tra le cose ridotte a oggetti, nei rapporti ridotti a esperimenti precari. È stanca perché è stata derubata dell’“oltre” che dà senso al presente, sostanza al desiderio, significato al futuro».
Come si vive la dimensione lavorativa? «La stanchezza della gente non è per la fatica del lavoro, perché la gente lavora con passione e serietà, impegna forze, risorse intellettuali, competenze. Lavora bene ed è fiera del lavoro ben fatto. La gente è stanca di un lavoro che non basta per vivere, che impone orari e spostamenti esasperanti. La gente è stanca degli incidenti sul lavoro, è stanca di constatare che i giovani non trovano lavoro e le pretese del lavoro sono frustranti».
Anche a vivere in famiglia si fa fatica: «La gente non è stanca della vita di famiglia, perché la famiglia è il primo valore, e il bene più necessario per la società, è la trama di rapporti che dà sicurezza, incoraggia, accompagna. La gente è stanca della frenesia che si impone alla vita delle famiglie con l’accumularsi di impegni e delle prestazioni necessarie per costruire la propria immagine, per non far mancare niente ai figli, per non trascurare gli anziani».
Non manca la stanchezza nel rapporto con le istituzioni e la politica: «La gente non è stanca dell’amministrazione, dei servizi pubblici, delle forze dell’ordine, della politica, perché è convinta che la vita comune abbia bisogno di essere regolata, vigilata, organizzata. La gente è stanca, invece, di una politica che si presenta come una successione irritante di battibecchi, di una gestione miope della cosa pubblica. La gente è stanca di servizi pubblici che costringono a ricorrere al privato, di un’amministrazione che non sa valorizzare le risorse della società civile, le iniziative della comunità».
Non manca un riferimento a un’informazione “gridata”: «La gente non è stanca della comunicazione, perché la comunicazione è il servizio necessario per avere un’idea del mondo. Invece la gente è stanca di quella comunicazione che raccoglie la spazzatura della vita e l’esibisce come se fosse la vita, stanca della cronaca che ingigantisce il male e ignora il bene».
Invece di cosa è stanca la terra? «Quando l’uomo in questa casa comune, dove tutto è in connessione vitale, sconfina dal suo ruolo di custode volendo diventare padrone e dominatore assoluto, l’equilibrio vacilla e sono rovinate le connessioni vitali. Subentrano il male, la malattia, la guerra, le devastazioni. La terra è stanca quando si sfruttano con avidità insaziabile le risorse. È stanca di essere ridotta a una discarica, di quel modo di vivere il presente che non si cura del futuro. La terra è stanca e protesta: gli sconvolgimenti climatici sono, dal punto di vista della terra, una ribellione contro un equilibrio infranto, un’alleanza tradita».
Anche la città soffre, soprattutto sul tema della casa. «La città non è stanca delle case, perché le case, gli uffici, le strutture pubbliche e private sono la vita e la sostanza della città. La città è stanca delle case abbandonate al degrado, del consumo avido del suolo, delle aree inutilizzate, delle case che potrebbero ospitare persone e che sono invece vuote per calcoli meschini, per paura verso chi cerca un’abitazione, per evitare fastidi. La città è stanca delle case occupate e sottratte a chi ne ha diritto».
L’occasione del Giubileo
Di fronte a questa realtà in sofferenza, l’Arcivescovo vuole prendere spunto dall’Anno Santo indetto da papa Francesco, che «ci offre l’occasione per prenderci cura di questa stanchezza e per rendere possibili il riposo e la gioia. In che modo? Sarei lieto e onorato di poter farmi voce della proposta di propiziare un rimedio alla stanchezza della gente, della città, della terra ispirandomi ai temi del Giubileo e invocando l’intercessione di Sant’Ambrogio. Cerchiamo insieme un rimedio alla stanchezza dei poveri con il condono dei debiti; di persone e istituzioni al servizio del bene comune, in particolare in ambito educativo e socio sanitario; allo scandalo della guerra, proponendoci percorsi di riconciliazione, di giustizia e di pace; della città e della terra attivando una sensata educazione ecologica».
Il condono dei debiti
Delpini si sofferma innanzitutto sui debiti dei poveri: «Quando il reddito del lavoro non basta per il sostentamento della famiglia, per la continuità di una attività produttiva, aumenta il numero di coloro che non hanno il necessario per vivere, anche a Milano, anche in Lombardia. Quando si sviluppano dipendenze indotte o colpevoli, uomini e donne percorrono vie senza uscita e cadono nella disperazione. I fenomeni del sovraindebitamento, del precipitare in condizioni di vita indegne della persona umana devono essere affrontati. Il sistema del credito ha qualche cosa di malato, se invece di incoraggiare la buona volontà di chi cerca di uscire dalla povertà esclude con spietata indifferenza i poveri».
Ecco la proposta dell’Arcivescovo, indirizzata in primo luogo alle banche: «Faccio appello a considerare con serietà le vie per il condono dei debiti, per forme di alleanza, di mutuo soccorso, di ripensamento del sistema bancario, perché troppa gente è disperata e troppe situazioni favoriscono l’immissione di denaro sporco e condannano a entrare negli ingranaggi perversi dell’usura».
Ma esistono anche i debiti dei ricchi: «Chi si è arricchito con la sua intraprendenza, grazie alle condizioni favorevoli, è in debito verso coloro che si sono impoveriti. La ricchezza onesta è una responsabilità sociale. È sapiente quel modo di intendere il profitto, conseguito con la collaborazione e la fatica di tutti, come una risorsa per ognuno, non solo come un dividendo per arricchire gli investitori».
Una sollecitazione forte, spesso non così “popolare”: pagare le tasse. «Il Giubileo è offerto anche ai ricchi come tempo di grazia. Il primo modo di contribuire al bene comune da parte di tutti è il pagamento delle tasse: si tratta di giustizia, doverosa e determinata. La restituzione delle ricchezze nell’esercizio di una matura responsabilità non potrà essere la beneficenza, ma piuttosto un investimento per dare riposo alla gente, alla terra, alla città».
Anche la Chiesa non si sottrae, dando il proprio contributo con l’annuncio di un nuovo progetto operativo: «In occasione del cinquantesimo anniversario di Caritas ambrosiana impegno la Diocesi di Milano perché, insieme a tutti coloro che hanno una responsabilità in questo ambito, venga promossa un’opera significativa su un tema particolarmente urgente come quello della casa per tutti».
Da sempre l’Arcivescovo invita a non abbassare la guardia verso la sempre più pervasiva infiltrazione mafiosa a Milano e in Lombardia: «Da qualche parte si accumulano ricchezze maledette, procurate con l’usura, lo spaccio di droga, la pornografia, il gioco d’azzardo. Le ricchezze maledette gridano vendetta al cospetto di Dio. In questo anno giubilare deve risuonare l’invito alla conversione, a riparare il male compiuto, a restituire quanto è possibile. Alcuni danni provocati sono irreparabili. Ci sono però opere buone per prendersi cura delle persone danneggiate».
Da qui un appello a convertirsi a chi vive nell’illegalità: «“Guai a voi ricchi di ricchezze maledette!” gridiamo noi facendo eco a Sant’Ambrogio. La ricchezza disonesta, maledetta, non trova nel Vangelo una condanna senza appello: Zaccheo, il ricco disonesto, fa esperienza della simpatia di Gesù che lo ricolma di gioia e lo convince alla doverosa restituzione e alla generosa riparazione. Il Giubileo è un’accusa severa e anche un invito a conversione».
La cura per il «servo buono e fedele»
Delpini accende i fari su alcune professioni dedicate al bene delle persone. E parte da chi è impegnato nell’educazione: «Nell’opera educativa non è raro lo scoraggiamento nel constatare che tutto l’impegno e la buona volontà non bastano a salvare gli adolescenti e i giovani dalla depressione, dalla chiusura su se stessi, dall’esperienza drammatica di non aver voglia di vivere. Capita pertanto che gli insegnanti, gli educatori, gli assistenti sociali e anche i preti, i consacrati e le consacrate, siano stanchi, logorati da un carico di lavoro che si confronta con inedite resistenze e affaticati da adempimenti burocratici sproporzionati. L’anno giubilare può essere l’occasione per le istituzioni per dare sollievo a operatori stanchi con riconoscimenti più concreti, con simpatia e stima più evidenti, con una semplificazione della burocrazia».
Secondo ambito rilevante è quello sanitario, il cui personale è «un patrimonio inestimabile di attenzione alle persone. L’anno giubilare può essere per la società, per le istituzioni amministrative, per i responsabili della politica nazionale l’occasione per esprimere la gratitudine, offrire il sostegno, retribuire adeguatamente le persone che lavorano in questi contesti e sostenere le istituzioni che operano con lungimiranza e concretezza in ambito sanitario e socio-sanitario».
Oltre a questo «può essere anche l’occasione per ricostruire nell’opinione pubblica in modo realistico la stima e la gratitudine per coloro che lavorano nel “sanitario”: esaltati come eroi durante la pandemia, oggi si ritrovano sovraesposti, aggrediti e additati come i soli responsabili di un servizio indispensabile, di un diritto che non riesce a essere adeguato ai bisogni di tutti, tanto meno dei poveri».
Terza attenzione, sempre più urgente, è l’educazione alla pace, a partire dalle piccole azioni quotidiane: «Non è insignificante l’educazione al gesto minimo di non buttare la carta per terra. Ma che cosa pensare di Paesi dove si sganciano bombe dappertutto, dove la guerra distrugge, avvelena, rovina la vita delle persone, l’ambiente e la storia di popoli oppressi da troppi anni di umiliazioni e violenze? Noi tutti siamo stanchi della guerra, delle notizie di guerra e delle ragioni addotte per giustificarla. Siamo stanchi e ci sentiamo impotenti e inascoltati quando chiediamo pace».
L’anno giubilare può essere il tempo opportuno per diventare «pellegrini di speranza», come chiede il Papa, «per farci carico dell’educazione alla pace nelle scuole, negli oratori, nelle attività culturali, nella pratica sportiva, in ogni ambito della vita sociale. L’educazione alla pace chiede un impegno costante per estirpare le radici dell’odio e della violenza sparse dappertutto e che talora esplodono tragicamente tra le pareti domestiche, nelle vie della città, negli stadi. L’educazione alla pace ha bisogno anche di una spiritualità che sa pregare».
Quarto, la cura necessaria per la terra e per la città: «Per cambiare rotta si avverte talora nella nostra società il convenire promettente di tutte le competenze scientifiche, filosofiche, storiche. Hanno voce e autorevolezza per pretendere un comportamento rispettoso verso l’ambiente nel vivere quotidiano, per cercare fonti alternative di energia, per educare a sapienza e lungimiranza, per contrastare l’assurdità dei vandalismi, degli sprechi, dell’indifferenza. Per l’educazione ecologica è irrinunciabile una spiritualità che rivolga il pensiero a Dio e lo senta alleato del bene comune, padre sollecito e provvidente per tutti».
In conclusione, «lasciare riposare la terra non significa scegliere di assentarsi dalla storia o immaginare un periodo di semplice inerzia. Al contrario, si tratta di un esercizio fortemente attivo: chiede di raccogliere tutte le energie per evitare di continuare a fare quello che si è sempre fatto e riuscire a sospendere le abituali azioni per ascoltare».