Quale rapporto del vescovo con la città? A pochi giorni dal Discorso alla città di giovedì 6 dicembre alle 18 in Sant’Ambrogio, pubblichiamo il testo della Telefonata con l’Arcivescovo, realizzata da Fabio Brenna per Radio Marconi.
Monsignor Delpini, cosa significa per lei essere vescovo di una grande città e Diocesi come Milano?
Significa passeggiare per le strade di Milano, guardarsi intorno e dire: «Queste sono persone che hanno diritto di aspettarsi da me un sorriso, una parola di speranza, una parola di Vangelo». Significa passare per le strade di Milano, quali che siano (centro, periferia, con la macchina, con la metropolitana, col tram), e guardarsi intorno: come è bella questa città e quanto bisogno c’è che sia una città che ha un futuro, una speranza, una coesione sociale promettente per rendere bella la vita. Tanti pensieri di questo genere vengono in mente al vescovo di Milano.
Quando lei parla a questa città che tipo di comunicazione è?
Dipende dalle circostanze e dai contesti. È chiaro che un conto è parlare in chiesa quando mi rivolgo a fedeli cattolici che vengono perché c’è il vescovo, perché vogliono sentire una parola di commento al Vangelo, di prospettiva per la loro vita cristiana. Diverso è, per esempio, parlare nei cimiteri dove vado il 2 novembre a ricordare tutti i morti, perché li considero miei tutti quelli di Milano. Quindi parlare della speranza e del dolore, rivolgermi alle istituzioni pubbliche, che si tratti delle Forze armate, dell’amministrazione comunale, degli amministratori della giustizia… Lì parlo come uno che a nome della Chiesa dichiara la sua alleanza per il bene comune, la disponibilità della Chiesa a essere protagonista insieme con gli altri, a essere collaboratrice della costruzione della città.
Milano è una città multiforme, che è cambiata molto; una città fatta di credenti e di non credenti, dalla caratteristica sempre più multietnica. Del resto lei ha proposto il Sinodo minore sulla «Chiesa dalle genti»…
Sì, è un tratto che si è definito con molta chiarezza negli ultimi anni. Questa pluralità di culture, di lingue, di interessi, di forme di espressione religiose hanno cambiato il volto della città milanese di antica memoria. La Chiesa non considera nessuno straniero: quindi per noi il fatto che uno venga da un Paese o da un altro, che parli il dialetto milanese, lo spagnolo o l’inglese non è un motivo per dire «non ci interessa di te, non sei dei nostri». La Chiesa è cattolica per la sua fondazione divina e la sua vocazione universale. Quindi per noi è soltanto una provocazione a vedere come le differenze di cultura e di sensibilità possano rendere più bella la Chiesa invece che complicare la vita.
In un panorama di una città così multiforme è possibile pensare a momenti, a situazioni in cui si ricomponga; punti di unità, convergenze di persone così differenti fra loro?
Sì, ci sono molti punti di convergenza, anche se non tutti sono semplici. Ci incontriamo nei momenti della festa, quando Milano si riempie di gente che viene a comprare, a visitare le bancarelle, a festeggiare il patrono e così via. Ci troviamo nei momenti del dolore: negli ospedali non c’è distinzione di origine quando c’è la malattia, la prova per i propri familiari. Ci troviamo a scuola, dove si incontrano studenti di ogni provenienza, con l’impegno impressionante del corpo docente e dell’istituzione scolastica per trasmettere una cultura che è difficile da assimilare, per chi deve ancora imparare bene la lingua. A me pare che la città sia una vocazione all’incontro e questo fatto non vuol dire che è facile, che è spontaneo, che è desiderato da tutti. Vuol dire che non c’è alternativa. Questo è un segno dei tempi che la Chiesa, docile allo Spirito, è impegnata a raccogliere, ad apprezzare e anche ad affrontare pur conoscendo tutte le difficoltà.
Se dovesse fare un invito oggi alla città quale potrebbe essere?
Io rinnoverei l’invito che ho fatto da qualche tempo, chiamando tutti a praticare l’arte del buon vicinato: quel modo di vivere gli uni accanto agli altri, che considera gli altri come persone con cui stringere un’alleanza, con cui stabilire un rapporto di cordialità. Questo buon vicinato ha bisogno dello sforzo di ciascuno di essere ragionevole, di non essere solo preso dalla propria emotività o paure, piuttosto dalla ragionevolezza. È meglio aiutarsi che contrastarsi, è meglio salutarsi che vivere indifferenti, è meglio essere attenti alle persone piuttosto che essere così sbadati da disturbare, da rovinare, da complicare la vita degli altri. La ragionevolezza buona e semplice, a cui tutti sono chiamati, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, perché questo vivere insieme non diventi una giungla impenetrabile o una Babele incomprensibile. Diventi invece un villaggio in cui ci si riconosce, ci si aiuta, si ha disponibilità ad ascoltarsi e fa crescere a poco a poco un sogno comune, una speranza condivisa.