Sbaglia chi pensa che la solidarietà con i migranti sia un pallino di papa Francesco. C’è un filo rosso della dottrina sociale cattolica che, fin da Leone XIII, ha individuato nell’accoglienza degli stranieri un preciso dovere dei credenti e una missione della Chiesa. Una pietra miliare in proposito è la Costituzione apostolica Exsul Familia di Pio XII, del 1952, che affermava: «Modello e sostegno di tutti gli emigranti e pellegrini di ogni età e di ogni paese, di tutti i profughi di qualsiasi condizione che, incalzati dalla persecuzione o dal bisogno, si vedono costretti ad abbandonare la patria, i cari parenti, i vicini, i dolci amici, e a recarsi in terra straniera», è «la Famiglia di Nazareth in esilio». È indubbio, però, che la sollecitudine nei confronti di immigrati e rifugiati per papa Francesco è un aspetto fondamentale della carità sociale.
A Lampedusa
Basti pensare che papa Bergoglio ha dedicato il suo primo viaggio pastorale fuori Roma all’isola di Lampedusa, l’8 luglio 2013, dopo una delle troppe tragedie del mare che hanno inghiottito migliaia di vite umane nel Mediterraneo. In quell’occasione, papa Francesco ha pronunciato un drammatico discorso che, riletto oggi, risuona come il suo manifesto programmatico sul dovere di accogliere. Da Lampedusa ha puntato il dito contro il disorientamento ansioso e difensivo, «per cui l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere»; contro l’incapacità di custodire il mondo che Dio ha creato per tutti, diventando così incapaci «di custodirci gli uni gli altri»; contro la perdita del senso della «responsabilità fraterna»; contro la «cultura del benessere», «che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri». Qui per la prima volta il Papa ha condannato la globalizzazione dell’indifferenza: «Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affar nostro (…). La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto».
Aprirsi a nuove culture
Ripercorrendo il magistero di papa Francesco, i temi della «globalizzazione dei volti», della responsabilità fraterna, dell’uscita verso il fratello, della città come sede dell’incontro tra persone trovano un luogo emblematico di realizzazione nell’accoglienza del diverso, dello straniero. La città, infatti, va vista oggi come “ambito multiculturale”, e la Chiesa è chiamata a porsi al servizio di quello che il Papa stesso definisce un «dialogo difficile» (Evangelii Gaudium, 74). Di qui l’esortazione a una generosa apertura, che invece di temere la distruzione dell’identità locale sia capace di produrre nuove sintesi culturali: «Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!» (Evangelii Gaudium, 210, ripreso in Laudato Si’, 152).
Il vissuto personale
Certamente la biografia del Papa, nipote di emigranti piemontesi, ha influenzato il suo sguardo sull’argomento. Nell’enciclica Fratelli tutti ha scritto fra l’altro: «In Argentina, la forte immigrazione italiana ha segnato la cultura della società, e nello stile culturale di Buenos Aires si nota molto la presenza di circa duecentomila ebrei. Gli immigrati, se li si aiuta a integrarsi, sono una benedizione, una ricchezza e un nuovo dono che invita una società a crescere» (118).
Arriviamo così all’intervento più recente, l’Angelus di domenica 5 marzo, in cui papa Francesco ha parlato del naufragio di Cutro, in Calabria. Giornali e Governo hanno dato rilievo quasi soltanto alla sua condanna dei trafficanti, ma il breve intervento aveva un respiro ben più ampio: «I viaggi della speranza non si trasformino mai più in viaggi della morte! Le limpide acque del Mediterraneo non siano più insanguinate da tali drammatici incidenti!», e si è concluso con accenti che richiamano il discorso di Lampedusa: «Che il Signore ci dia la forza di capire e di piangere».
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