«Gerusalemme e Milano. Una Chiesa, due realtà in dialogo». Già il titolo dell’affollato incontro che vede il confronto tra il Patriarca latino di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, e l’Arcivescovo, dice tutto il senso di una riflessione tra Chiese sorelle, eppure tanto diverse, che mai come oggi pare necessaria.
Promossa dai Circoli Culturali Giovanni Paolo II, con Ucid Milano e Ucid Gruppo Regionale Lombardo – presenti i vertici delle due realtà e il presidente della sezione milanese, Aldo Fumagalli -, la serata si svolge presso il Centro pastorale cardinale Schuster di via Sant’Antonio con la moderazione di padre Gonzalo Monzon, dell’Ordine dei Legionari di Cristo, prendendo spunto dalla Proposta pastorale per l’anno 2023-2024 Viviamo di una vita ricevuta e dal Direttorio per il Ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum successores. Tra una grande maggioranza di laici, partecipano anche molti sacerdoti, tra cui monsignor Maurizio Malvestiti, vescovo di Lodi e delegato della Conferenza episcopale lombarda per l’Ecumenismo.
Le Diocesi di Milano e di Gerusalemme
Si parte da una breve immagine «a pennellate» delle rispettive Chiese, disegnata dai due Vescovi.
«Milano è la Diocesi migliore del mondo – dice con un filo di ironia monsignor Delpini -, con tutti i tratti della bellezza, della storia, dei costumi della tradizione cristiana. Una Chiesa che ha dato al mondo tanti santi, tante vocazioni, preti e suore che sono andati in missione e negli istituti secolari, dove la cultura è coltivata con la fondazione, per esempio, dell’Università Cattolica. Tuttavia, è una Chiesa che sente di abitare in un contesto dove è sentita come antipatica. È una Chiesa capillare, che fa tante cose, ma che vive in una realtà in cui la gente sembra fare a meno di Dio, di Gesù, della speranza della risurrezione. Siamo ovunque con la Caritas, i volontari, gli oratori, ma non per annunciare Gesù risorto. Il contesto secolarizzato non è soltanto indifferente, sente una specie di fastidio per la proclamazione del Vangelo. È una Chiesa che avverte una specie di stanchezza, è come se il roveto ardente fosse appannato: un tesoro bellissimo, ma sul quale si è depositata la polvere e dove anche noi facciamo fatica a dire ciò in cui crediamo; dove la missione rischia di essere un imbarazzo, più che un ardore, fermandosi l’annuncio a una cerchia che già lo dà per scontato, sentito e accolto».
Molto diverso, ovviamente, il Patriarcato guidato dal 2020 dal cardinale Pizzaballa che spiega: «Se Milano è la più importante al mondo, io posso dire che la Chiesa di Gerusalemme è la più complicata, estendendosi su quattro Paesi diversi – Giordania, Israele, Palestina e Cipro -, con lingue differenti, dall’arabo (la più parlata) fino al turco. Un altro aspetto è che è una Chiesa minoritaria, con i cristiani che rappresentano l’1% della popolazione e i cattolici lo 0,5 e in cui, quindi, il dialogo ecumenico e interreligioso è un aspetto costitutivo e una necessità pastorale, così come il rapporto con i diversi Stati. Siamo una Chiesa piena di contraddizioni – fatta dello 0,5, ma abbiamo milioni di cristiani che vengono da noi ad attingere alle sorgenti della propria fede -, siamo al cuore del mondo, ma anche periferici in un crocevia politico-sociale e geopolitico complicato, dove, per esempio, è impossibile fare un’assemblea diocesana. Tuttavia, con Milano condividiamo il fatto che diamo fastidio quando parliamo di risurrezione. La nostra missione non è di essere potenti, ma significativi, testimoniando la nostra fede in un contesto multiculturale, multireligioso e anche multiconflittuale».
La Chiesa missionaria
Ma come essere oggi Chiesa missionaria – domanda il moderatore -, secondo quanto chiede espressamente il Direttorio? «Bisogna capirsi sulle parole – osserva subito il Cardinale -, perché il termine “missione” in Medio Oriente non si può usare, significa proselitismo ed è proibito anche per legge. La Chiesa di Terra Santa è molto estroversa e, infatti, non troverete mai un campanile dove non vi sia, accanto, un luogo di cura o una scuola aperta a tutti senza differenze. Quindi, il primo passo per essere missionari è la testimonianza, nell’attenzione alla realtà del territorio, ascoltandone quei bisogni e povertà nei quali tutti si riconoscono. Il cristianesimo prima di essere una religione è uno stile di vita e di ascolto della realtà. Ci sono luoghi dove è complicato portare la croce, ma nessuno può impedire di dire cosa significhi: dare la vita».
Espressioni, queste, a cui risponde l’Arcivescovo: «La Chiesa di Milano vive la missione come attrattiva. Celebrare Messa è attraente, per esempio, e così lo sono le nostre attività educative, caritative, culturali», basti pensare al centinaio di catecumeni che, ogni anno, nella Chiesa ambrosiana, scelgono il battesimo. «E poi c’è l’apostolato della gente, che porta negli ambienti di vita la parola che ha ascoltato a Messa. Su questo punto, però, siamo timidi: ovviamente, non si tratta di andare in ufficio a fare catechismo, ma di dire come il Vangelo offra un senso all’esistenza. Per questo abbiamo attivato il Gruppo Barnaba, che significa guardarsi in giro come fece l’apostolo e apprezzare i segni del regno di Dio, allora tra i pagani, oggi nei nostri Decanati, per cui abbiamo convocato anche le Assemblee sinodali decanali. Dobbiamo essere testimoni e missionari, perché questa terra guarda al futuro come a una minaccia e non come a una speranza».
Le sfide del presente
Nasce qui, per l’Arcivescovo, una delle sfide più decisive di oggi: «La prima sfida è il tema della speranza e, poi, il senso della vita intesa come una chiamata, concetto estraneo al mondo contemporaneo. Si tratta di intendere la vita come vocazione e il futuro come dimora della speranza».
«Per noi», aggiunge Pizzaballa, «sentirsi parte di un’unica Chiesa non è così facile o spontaneo. Viviamo da sempre dentro un conflitto che non può non interrogare la vita delle nostre comunità. Ci sono cristiani a Gaza sotto le bombe, soldati israeliani, e io sono il vescovo di tutti loro», scandisce il porporato, divenuto tale solo una settimana prima dell’attacco del 7 ottobre.
«La sfida è la fiducia, anche se è sempre più difficile oggi credere che ci possano essere prospettive di fiducia. C’è uno stile cristiano da vivere, anche se è complesso in una realtà dove Natale e Pasqua sono giorni lavorativi e dove la parola perdono è quasi sconosciuta, ma c’è, tra la mia gente, un orgoglio nell’essere cristiani» perché «essere sempre minoritari costringe a fare delle scelte e a essere chiari nelle risposte da dare. A Gaza siamo meno di un migliaio di persone su due milioni di abitanti, ma siamo quelli che si lamentano di meno».
Un tema, quello del lamento, molto caro a monsignor Delpini e dolente nelle sue parole: «La vita dei cristiani a Milano riempie di meraviglia, tanta gente qui cerca di far del bene e di farlo bene ed è stupefacente quanti volontari si dedichino al servizio degli altri, però è come se mancasse la gioia. Al contrario dei cristiani di Gerusalemme noi ci lamentiamo sempre: è una specie di imperativo».
L’idea di Chiesa oggi e il ruolo del Vescovo
«La mia idea del Vescovo è di essere un servo a servizio dell’unità», chiarisce Delpini, sollecitato sul tema da padre Monzon.
«Per me essere Vescovo – riflette il Patriarca di origine bergamasca, religioso francescano dei Frati minori -, significa ascoltare perché questo mi dà energia come la visita alle comunità che rinnova la consegna per la Chiesa. Il mio brano biblico prediletto sono gli ultimi capitoli dell’Apocalisse, quando si parla della Gerusalemme celeste che scende dal cielo: una città che non ha il sole, ma una luce, quella pasquale, non ha un tempio, ma l’agnello da cui sgorga un fiume di acqua viva che guarisce le nazioni, una città che non ha mura. Questo ci parla della necessità di avere uno sguardo pasquale sulla vita, uno sguardo redento».
Ma come vedere la missione della Chiesa fedele alla sua identità, in un contesto multiculturale? Chiarissimo il Cardinale: «Non bisogna avere paura dei cambiamenti o di perdere posizioni perché la Chiesa non sono le nostre istituzioni, ma è Gesù Cristo e, anzi, la Chiesa vince quando perde. E, poi, occorre custodire viva la bellezza della fede e comunicare la nostra diversità. Forse, la difficoltà è che parliamo una lingua che ha bisogno di troppe traduzioni. Il nostro mondo non sta finendo, sta finendo forse un modello e non se ne vedono di chiari all’orizzonte, ma Cristo è per sempre».
Il riferimento dell’Arcivescovo, nel rispondere all’interrogativo su come abitare il mondo di oggi, è ai mutamenti in atto e, in primis, al Sinodo minore Chiesa dalle genti, «che abbiamo voluto per dire cosa è cambiato a Milano con l’arrivo di persone da tutte le parti del mondo. I cristiani ritengono che non siano migranti, rifugiati, profughi, ma fratelli in una Chiesa che li accoglie non con un’integrazione o assimilazione, o come isole, ma come un popolo che cammina insieme e si trasforma con l’apporto di tutti».
E, poi, i cambiamenti che vengono dalla «fierezza di essere città dell’innovazione». Qui il richiamo non può che essere a Mind e alla presenza della Chiesa in quel polo metropolitano. «È una sfida interessante chiedersi come dare testimonianza in un luogo simile dove vogliamo e dobbiamo esserci». Un terzo capitolo sfidante «è la disperazione, perché si è persa la spiritualità, per questo con la Cattolica abbiamo organizzato “Soul”, il Festival della spiritualità».
Il ruolo dei cristiani come elemento di pace
Infine, ineludibile, torna il tema della pace. «Oggi non vedo un pensiero di pace che venga salutato come benedetto – prosegue l’Arcivescovo -, c’è troppa aggressività, reattività istintiva, vogliamo la pace e qui si costruiscono armi. Ho fatto il proposito di non parlare di questo argomento perché si finisce sempre per offendere qualcuno. L’unica cosa è pregare per la conversione nostra e di tutti perché crediamo nella promessa di Dio».
«Da noi di fronte a ingiustizie evidenti, – risponde Pizzaballa – non si può non parlare di giustizia e di pace, ma aggiungerei altre due parole per me necessarie, anche se difficili: verità e perdono. Una Chiesa che non parla di giustizia, di verità e di perdono, è una Chiesa che viene meno alla sua testimonianza».
Ma cosa può fare la Chiesa ambrosiana per Gerusalemme? «Milano ha una grande generosità e amore, un legame profondissimo verso il Patriarcato e fa quello che può – anche se non pagherà mai per intero il suo debito -, con i pellegrinaggi, le nostre comunità a Gerusalemme, tanti studiosi», sottolinea sorridendo l’Arcivescovo che trova la conferma di tutto questo da parte del Cardinale che si chiede «cosa possiamo fare noi per voi come spaccato di Chiesa locale e universale cordiale, ma non rinunciataria». «Siamo da sempre Chiesa dalle genti e, forse, possiamo dare il nostro contributo alla comprensione su come vivere questa sfida», conclude il Patriarca tra gli applausi.