Sabato 10 novembre, nel Duomo di Milano, l’arcivescovo Mario Delpini ordinerà otto nuovi diaconi permanenti, nel corso della celebrazione vigiliare che avrà inizio alle 17.30. Un ministero, quello del diaconato, che ha nel nome stesso una grande responsabilità, comune tutti i battezzati: il servizio. Dal 1987, quando il cardinale Carlo Maria Martini lo istituì nella nostra Diocesi, il diaconato è cresciuto fino a poter contare oggi su 144 uomini, sposati e celibi, impegnati là dove la Chiesa si interfaccia con situazioni di lontananza dalla fede, ricerca di Dio, indifferenza, ma anche povertà materiale. Ne parliamo con don Giuseppe Como, rettore per la Formazione al diaconato permanente.
Il ruolo dei diaconi nelle nostre comunità si può dire che sia sempre più apprezzato?
Le situazioni sono diverse, è difficile affermare in linea generale che il riconoscimento e l’apprezzamento del diaconato permanente sia in progressivo aumento. Posso dire che, a partire da diversi fattori (numero, cura per la formazione, ricerca di destinazioni capaci di valorizzare il diaconato) si stanno creando le condizioni perché questo ministero sia effettivamente valorizzato. E spesso questo avviene, più che in passato.
Come può presentare questa classe?
È una delle classi più numerose degli ultimi anni e una delle più unite, almeno a giudicare dal loro desiderio di ritrovarsi anche al di fuori dei momenti istituzionali di formazione.
Quest’anno, per la prima volta, nelle parrocchie è stato diffuso il loro tableau, come si fa con i futuri preti. È un modo per farli conoscere a tutta la Diocesi?
Sì, è stata una felice idea di questa classe. Credo sia giusto che i nuovi ministri ordinati si facciano conoscere in tutte le parrocchie con i loro nomi e i loro volti. Non è un “farsi pubblicità”, è un “metterci la faccia”, dichiarando il dono ricevuto da Dio e la volontà di servire questa Chiesa.
C’è qualche nuovo ambito in cui il diacono può svolgere il suo ministero in una Chiesa sempre più «dalle genti»?
Cerchiamo di essere attenti alle indicazioni dello Spirito che ci invita ad avere più immaginazione nel definire gli ambiti di ministero dei diaconi. Se devo citare un servizio, che non è propriamente nuovo, ma che esprime bene l’apertura del diaconato alla «Chiesa dalle genti», parlerei del servizio di ascolto in Duomo: lì davvero passano un po’ tutte le genti cristiane, per un consiglio, un confronto, magari solo una benedizione. Per questo alcuni diaconi che svolgono questo servizio si prestano al dialogo anche in altre lingue.
Quale la più importante indicazione lasciata dall’Arcivescovo ai diaconi riuniti in Assemblea lo scorso 20 ottobre?
Ne indicherei due: anzitutto, l’invito a coltivare uno “stile” di vita cristiana e diaconale. Lo “stile”, ci ha detto l’Arcivescovo, è più una qualità che una determinazione di cose da fare, è la trasparenza di un’umanità abitata dallo Spirito Santo. Questo stile deve permanere ed essere riconoscibile anche una volta che si assume un determinato ruolo: il ruolo ministeriale non deve stravolgere, ma esaltare lo “stile” diaconale. L’altra indicazione è a vivere l’obbedienza non solo come accettazione della propria destinazione, ma come condivisione cordiale della proposta diocesana nella sua integralità.
Su otto diaconi sette sono sposati con figli: quale suggerimento si sente di dare alle loro mogli?
Direi loro di non smettere mai di cercare il bene che il ministero porta alla famiglia del diacono e in primo luogo alla sua sposa. Chiederei loro di discernere, in mezzo alle inevitabili fatiche, la ricchezza di grazia che deriva soprattutto dalla dimensione ecclesiale che si spalanca con il ministero diaconale. Sono convinto, anche per la testimonianza delle mogli stesse, che il diaconato aiuti la coppia e la famiglia a vivere con maggiore intensità il loro essere Chiesa.