«Le problematiche serie e complesse del lavoro hanno specifiche declinazioni nel nostro tempo e nella nostra società. I testi che sono stati letti, le testimonianze offrono temi e spunti preziosi e impegnano a non smettere mai di confrontarsi, di studiare, di stare attenti a quello che sta succedendo. Concludendo con la preghiera, vogliamo professare la nostra fede nel Signore Gesù, vogliamo dichiarare che abbiamo bisogno di tutto e di tutti, ma che non possiamo fare a meno di Lui, della sua parola, della sua grazia. Forse possiamo anche pregare così: non permettere, Signore, che la nostra società sia un pollaio di competitività o di indifferenza o di precarietà».
È stato questo, nelle parole dell’Arcivescovo, il suggello dell’intensa e articolata Veglia diocesana per il Lavoro, dal titolo «Lavoro, partecipazione, sviluppo: il ‘noi’ per il bene comune». Incontro svoltosi presso il Consorzio Desio-Brianza a Desio, in occasione della visita pastorale nel Decanato e nell’imminenza della festa del 1° maggio, con la presenza di lavoratori e lavoratrici, persone impegnate nelle realtà sociopolitiche e occupazionali, autorità (tra cui il sindaco della città Simone Gargiulo e diversi assessori), il responsabile della Comunità pastorale don Mauro Barlassina e il decano monsignor Maurizio Tremolada.
L’intervento dell’Arcivescovo
Usando la metafora di una sorta di favola sospesa tra il passato agricolo tradizionale delle nostre terre e il futuro, l’Arcivescovo ha cosi simboleggiato la condizione attuale del lavoro: «Mia nonna aveva un pollaio domestico, come si usava al mio paese. C’era una ciotola sola per il mangime e le galline accorrevano festose e insieme aggressive. Era un pollaio della competitività. Quando poi mio zio prese in mano le cose, pensò che con queste galline si poteva fare qualche affare. Perciò impiantò un grande allevamento di polli. La vita era noiosa, ma tutto procedeva con ordine. Era il pollaio dell’indifferenza». E, ancora: «Quando mio cugino prese in mano le cose, si dedicava di più a leggere Il Sole 24Ore che a curarsi del pollaio. Quando però c’erano incentivi per abbattere le galline e prevenire il diffondersi dell’aviaria sterminò le galline. Era il pollaio della precarietà».
Il richiamo è anche alla pagina evangelica di Giovanni 5, appena proclamata, con la guarigione del paralitico. «Possiamo immaginare che Gesù entri sotto il portico della piscina Betzatà, in cui c’erano molti infermi, e ascolti il paralitico che dichiara di trovarsi come in un pollaio della competitività. Forse, per stare nell’immagine, Gesù entra nel pollaio e trasforma le galline in colombe che volano libere in cielo, che portano messaggi di pace, che affrontano con mitezza la vita, che portano vicino alle case degli uomini un segno di eleganza, di prossimità semplice. Volano e invitano a guardare in alto. Volano e si nutrono cercando da sé quello di cui hanno bisogno, senza pretese, senza rubare niente a nessuno. Volano e cantano quando è il tempo dell’amore come per dire che non sono fatte per vivere sole o per pensare solo a se stesse. Signore, donaci di vivere in pienezza. Insegnaci a volare».
Una speranza e un auspicio, quelli dell’Arcivescovo, come una risposta immediata ai tanti interventi della serata. A partire da quello iniziale di don Nazario Costante, responsabile del Servizio diocesano per la Pastorale del Lavoro e l’Azione sociale.
Andare all’origine del senso del lavoro
«Vogliamo esprimere la nostra gioia di pensare il lavoro e pregare per il lavoro, soprattutto per rieducarci a mettere al centro il valore infinito della persona. La questione del lavoro è tra le più rilevanti. Il lavoro nella sua dignità perché realizza la persona e forma la comunità e il lavoro dignitoso capace di favorire lo sviluppo umano integrale e solidale. L’articolo 35 della Costituzione dice: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”: questo chiede di andare all’origine del senso del lavoro per poter, poi, valutarne le conseguenze. Elevare la persona significa scoprirci all’interno di un progetto di cooperazione a un bene più grande di noi, che va “oltre”. Il lavoro genera comunità, la comunità genera lavoro. Prendersi cura del lavoro è un atto di carità politica e di democrazia, un impegno che coinvolge tutti nel costruire un futuro migliore, un impegno che abbraccia l’integralità dell’individuo e l’integrità della società». Così come ha sempre insegnato la Dottrina sociale della Chiesa e come ripropone il messaggio dei Vescovi italiani per la Festa dei lavoratori 2024, dal titolo «Il lavoro per l partecipazione e la democrazia», di cui vengono letti alcuni stralci.
Dopo i saluti di Simone Carcano, assessore di Bovisio Masciago e presidente del Consorzio Desio- Brianza, monsignor Tremolada, in riferimento alla tradizionale immagine della ruota dentata, emblema delle terre brianzole e del lavurà – verbo omnicomprensivo, per molti, di tutta una vita -, evidenzia le sfide di oggi, «ossia la fatica a tenere insieme tutto in un vita sempre più frammentata, e la difficoltà, anche della comunità cristiana, nel dialogare con il mondo del lavoro».
Le testimonianze
Tre le testimonianze. Victor, brasiliano, da due anni e mezzo in Italia con la moglie, entrambi avvocati, ma alle prese con lavori precari – lui nella sorveglianza, lei rider senza tutele -, perché i titoli conseguiti nel loro Paese di origine non sono riconosciuti in Italia: «La precarietà è il nostro pensiero continuo e, nonostante questo, cerchiamo di svolgere il nostro lavoro con correttezza e dignità. Mi chiedo come renderci protagonisti di un lavoro che ci unisca», scandisce.
Federico, dal tempo della pandemia lavoratore in smart working, sottolinea i vantaggi della flessibilità, ma anche il senso di isolamento e la mancanza di interazione sociale: «Favoriamo l’inclusione e l’appartenenza, prevediamo attività lavorative in presenza per mantenere un equilibrio sano tra lavoro e tempo libero. Come lavorare in un ambito tecnologico, ma continuare a sviluppare la relazione?», si chiede, subito seguito da Valentina, che parla a nome dei lavoratori del Consorzio: «Facilitiamo l’inserimento al lavoro delle persone con disabilità», spesso segnate dallo stigma sociale e da una precarietà che fa rinunciare a ogni occupazione. «Chi fa orientamento deve ostinatamente esercitare lo sguardo sull’altro, specie per gli sfiduciati e per chi considera il proprio futuro già scritto. E questo per la giustizia e il benessere sociale di tutti».
Lavoro e comunità
«Queste esperienze ci fanno comprendere dove il “noi” è negato e dove, invece, è riconosciuto nella sua pienezza», spiega don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per i Problemi sociali e il Lavoro.
L’esempio è quello del fenomeno, assai cresciuto negli ultimi tempi, dei cosiddetti working poor che, pure impiegati, non riescono a far fronte alle spese, per cui 1 su 4 deve rivolgersi alla Caritas: «Un elemento, questo, che indebolisce il “noi” della partecipazione. Un’altra forma è la dimissione dal lavoro, specie tra i giovani che cercano di avere anche tempo per altro nella vita. Senza dimenticare il gap retributivo che permane tra donne e uomini. Il lavoro, come spiega papa Francesco in Evangelii Gaudium 192, deve essere libero, creativo, partecipativo e solidale – prosegue Bignami -, perché lavoro e comunità vanno connessi necessariamente nel duplice senso che l’Italia è una Repubblica basata sul lavoro, ma il lavoro nasce dalla comunità, come testimoniano tante cooperative e l’associazionismo presente, per esempio, in Brianza».
Una vera conversione culturale
Basti pensare all’Enciclica Fratelli Tutti che, al paragrafo 54, cita la pandemia e il riscoprirsi comunità nella quale tanti non si sono tirati indietro, continuando a lavorare «e facendo, quindi, esperienza di Vangelo perché nessuno si salva da solo». O ancora al paragrafo 162, dove il Papa affronta esplicitamente «il grande tema del lavoro», collegandolo proprio a un’esperienza popolare «per cui si produce per gli altri, si costruiscono rapporti, si fissano regole e si trasmettono competenze tra le generazioni».
«La vera conversione culturale è legata al senso del lavoro che ha bisogno sempre di essere liberato da forme di schiavitù e di non riconoscimento – nota ancora il responsabile dell’Ufficio Cei -. Questa è stata la preoccupazione costante della Chiesa: il lavoro come atto d’amore liberante, come scriveva Simone Weil», termina Bignami, ricordando la 50ma Settimana sociale dei Cattolici italiani, in calendario dal 3 al 7 luglio a Trieste e intitolata «Al cuore della democrazia».
Guardare al futuro
«“Vivete bene e muterete i tempi”, predicava sant’Ambrogio. Ma questo richiede un “noi” che condivida una carità intellettuale, leggendo dentro la realtà e volendoci bene tra persone», chiarisce Simona Beretta, docente di Politica economica in Cattolica e direttrice del Centro di Ateneo per la Dottrina sociale della Chiesa. «Nonostante i tempi cattivi è comunque inutile lamentarsi», ma occorre guardare al futuro e accettare le sfide.
«Un pensiero all’altezza di questa sfida l’ho trovato – evidenzia la relatrice – nella dichiarazione del Dicastero per la Dottrina della Fede, Dignitas infinita, che invita a non appiattirsi su quella che Francesco chiama l’“egemonia tecnocratica”. La dimensione materiale ha molto a che fare, infatti, con quella immateriale e l’umano ha una sua dignità per l’inscindibilità del corpo e dell’anima. Come notava già Adam Smith, la ricchezza delle nazioni è sempre legata al lavoro che si inserisce in un’amicizia sociale. I risultati dell’azione non dipendono solo da cosa si fa, ma da come e perché lo si fa, anche con relazioni durevoli, perché la speranza non passa attraverso la burocrazia, ma dalla cura e dall’accompagnamento».
Non a caso, in Fratelli Tutti 169, il Papa parla di «poeti sociali» a proposito dei «movimenti popolari che non sembrano trovare posto in certe visioni economicistiche chiuse e monocromatiche, aggregando disoccupati, lavoratori precari e informali».
«Ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie, con parole all’altezza del cambiamento, come appunto la poesia che ci fa vedere un orizzonte più largo, spaccando nel profondo e trasformando le cose. Preoccupiamoci dell’Intelligenza artificiale, ma anche della robotizzazione dell’umano, sapendo che robota, in lingua ceca, significa schiavo. Il “noi” del bene comune non è una questione organizzativa, ma un dato di fatto perché nessuno si fa da solo o può fare da solo. Il bene comune è quel “noi tutti” formato da individui, famiglie, gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociali: quindi, il primo bene comune è la nostra convivenza, perché siamo oggettivamente legati da qualcosa che ci tiene insieme e che muove dalla gratitudine», conclude Beretta, prima della preghiera finale e della benedizione.