«Andate presto a dire al mondo che il Signore è risorto dai morti. Andate tra gli scettici, gli immancabili scienziati del “non è scientificamente possibile”, tra quelli che tanto “tutto finisce nella morte”. Andate perché il mondo ha, mai come adesso, bisogno di quella rivelazione imbarazzante e improbabile», a cui la gente non crede ieri come oggi, proprio perché «la verità più necessaria è la meno creduta».
Un rito solenne
Le parole dell’Arcivescovo, che risuonano in Cattedrale nella Veglia pasquale – madre di tutte le sante veglie, come la definì Sant’Agostino -, sono il simbolo di quello che può e deve essere una Chiesa giovane, germoglio di novità, come testimoniano i sette giovani catecumeni che ricevono i sacramenti dell’iniziazione cristiana durante il rito, concelebrato dai Canonici del capitolo metropolitano, dal Moderator Curiae, dal responsabile del Servizio per la Catechesi don Matteo Dal Santo e da alcuni sacerdoti delle comunità di appartenenza dei battezzandi.
Una veglia della luce e della vita, esemplificata dal cero pasquale che, all’ingresso del Duomo, viene benedetto e acceso dall’Arcivescovo, a simboleggiare una moderna «colonna di fuoco che risplenderà nella notte», che, nella decorazione di quest’anno, richiama il cammino sinodale della Chiesa universale ed è stato realizzato dalle Clarisse del Monastero di Santa Chiara, nel quartiere Gorla di Milano, sorto accanto alla scuola centrata dalle bombe 80 anni fa, con le sue tante piccole vittime, fratelli lontani dei loro coetanei che muoiono ogni giorno nelle guerre insensate di oggi.
Alle quali sembra che l’umanità si sia ormai abituata, con la rassegnazione degli uomini e delle donne che «passano sotto la croce scuotendo il capo», come dice l’Arcivescovo nella sua omelia, proposta dopo lo splendido e solenne Preconio pasquale ambrosiano, risalente al V-VI secolo, cantato in latino dal diacono quale sintesi poetica e altissima dell’intera storia della salvezza, e la proclamazione della straordinaria abbondanza della Parola di Dio.
Si ascoltano, infatti nel silenzio, sei letture tratte dal Primo Testamento, prefigurazione dell’incarnazione e del sacrificio di salvezza di Cristo. E, finalmente, il triplice annuncio della Risurrezione «Christus Dominus resurrexit» – peculiare del Rito ambrosiano, in tutto simile al «Cristos Anesti» della liturgia bizantina nella Pasqua ortodossa – viene proclamato, con voce sempre più alta, dall’Arcivescovo ai tre lati dell’altare maggiore della Cattedrale. Le campane che si sciolgono e il canto dell’Alleluia che si alza raccontano la gioia di questo momento in cui «la Chiesa ritrova lo Sposo». Si entra, così, nel nuovo Testamento delle tre ultime letture, concluse dal Vangelo di Matteo con l’annuncio della risurrezione a Maria di Màgdala e all’altra Maria.
La verità scomoda
L’annuncio: «la verità più urgente per vincere la disperazione, la rassegnazione, la tristezza che avvolge ogni cosa segnata dal destino di morte», perché «senza la risurrezione di Gesù niente ha senso, se non provvisoriamente; niente è bello, niente è buono, niente è promettente se non nella precarietà di un’illusione. Per questo è urgente annunciare che Gesù ha vinto la morte, istituendo una vita nuova», scandisce l’Arcivescovo.
La «verità più necessaria, ma che si è rivelata allora, come ora, la più imbarazzante, la rivelazione più improbabile, alla quale non credono i discepoli e la gente: dalle persone semplici a quelle istruite, quelle aggiornate, informate, abituate ai discorsi scientifici che ritengono improponibile, anzi impossibile, la risurrezione di Gesù, perché contraddice la scienza, l’esperienza».
Tanto che «l’umanità sembra preferire restare schiava della paura della morte, immaginarsi dentro un processo in cui nulla si crea e nulla si distrugge, per cui è saggio, è conforme alla scienza e all’esperienza, ritenere che siamo fatti di elementi che si compongono e poi si scompongono dentro la vicenda insensata dell’universo». Così che persino tra i discepoli del Signore, sottolinea ancora l’Arcivescovo in chiaro riferimento ai cristiani del terzo millennio, «si è diffuso un certo scetticismo tra coloro che non escono di chiesa con la fretta di annunciare la risurrezione, piuttosto escono con calma e senza una parola da dire per sconfiggere la disperazione e diffondere la gioia della Pasqua».
La testimonianza dei catecumeni
Allora, come «obbedire all’angelo e all’urgenza del suo comando di annunciare Cristo risorto?». «Non c’è altra via che quella della testimonianza», la risposta di monsignor Delpini, «come quella dei catecumeni – sette in Duomo, di cui sei giovani donne, di diverse nazionalità, dalla cinese all’italiana e alla sudamericana -, 83 in tutto quest’anno in Diocesi con una netta prevalenza di giovani. «Testimoni, appunto, della speranza, per essere seminatori di fiducia, anche se, talvolta, la scelta del battesimo fa problema nel contesto vivono».
«Siamo grati ai catecumeni perché sono quelli che ascoltano e vanno a dire in fretta: “È risorto”, altrimenti il mondo rischia di morire di tristezza e di desolazione», conclude l’Arcivescovo, che subito dopo, presso il fonte battesimale di epoca borromaica, accompagnato dai battezzandi con padrini e madrine e dai concelebranti, amministra loro il battesimo. Poi il ritorno in processione, all’altare maggiore, con gli ormai nuovi cristiani che, rivestiti della tradizionale veste bianca, portano tra le mani una candela, precedendo il Vescovo che benedice l’assemblea con l’acqua benedetta. Fino ad arrivare ai piedi dell’altare dove viene conferito il sacramento della Confermazione.
Alla fine, della Veglia c’è ancora tempo per un augurio e per un ultimo appello rivolto a tutti: «Siete stati benedetti, siate benedizione, seminate la speranza in questo mondo così spesso segnato dalla disperazione».