Nell’eccesso del dolore, l’ostinazione della speranza, nell’esasperazione per le minuzie quotidiane, la cura del gesto minimo che è il compimento nell’amore. Sono queste le due consegne che l’Arcivescovo Mario Delpini ha lasciato – in un clima di raccolta commozione – a coloro che hanno preso parte alla celebrazione eucaristica da lui presieduta nella chiesa interna all’Istituto Nazionale dei Tumori.
«Un’occasione particolare», come l’ha definita il cappellano don Tullio Proserpio, nel suo saluto di benvenuto. Accanto a lui, concelebranti, altri due cappellani, don Luciano Massari, impegnato sempre in Istituto, e don Stefano Bersani dell’Istituto neurologico “Carlo Besta”, a sottolineare la collaborazione istaurata tra le due realtà, entrambe Ircss e all’avanguardia nella cura e nella ricerca.
Il ringraziamento, nelle parole di don Proserpio, è «per la consueta disponibilità e attenzione» dell’Arcivescovo, ma anche per i genitori di bimbi e giovani che non ce l’hanno fatta, riuniti in un Comitato di 80 famiglie molto attive in azioni di solidarietà con il reparto pediatrico dell’Istituto, ma non solo. Molti i presenti, tra cui la presidente del Comitato, Nadia Cocchia, il direttore generale della Fondazione Istituto Nazionale dei Tumori, Carlo Nicora, la direttrice dell’Oncologia pediatrica, Maura Massimino e il dirigente medico e docente Carlo Alfredo Clerici.
Una giornata della memoria, insomma, per cui quest’anno si è voluto celebrare una Messa che «in modo inevitabile pone al centro le grandi domande che abitano il cuore di ciascuno», ha ancora detto il Cappellano. «Consapevoli che anche la fede cristiana non restituisce nulla di quanto si è perduto, la Chiesa desidera condividere il percorso che state compiendo. Non abbiamo risposte da offrire, solo una condivisione da poveri, capace di aprire cammini imprevedibili, insieme alla speranza di fede, che l’ultima parola non è la morte ma la risurrezione, la vita». Un segno credibile di speranza come si rende evidente nella riflessione del vescovo Mario, che fa riferimento alle Letture del giorno, specificamente al brano di Esodo 6,9 – con gli israeliti che, stremati dalla schiavitù in terra d’Egitto, non ascoltano Mosè che pure porta il messaggio di liberazione di Dio – e al Vangelo di Matteo al capitolo quinto.
Il dolore e la speranza
«Quando lo strazio invade l’animo, quando il dolore per la morte, specie di ragazzi e bambini, diventa come una tenebra che oscura tutta la realtà, quando l’angoscia è pervasiva, succede che non si riesce ad ascoltare nessuna parola, se non forse il referto medico; nessuna promessa può essere creduta, nessun argomento risulta meritevole di attenzione», dice, infatti monsignor Delpini che, appunto, richiama l’esperienza della schiavitù del popolo eletto.
«È come se tutta la vita perdesse il suo senso. Il figlio o la figlia malata è come la condizione del popolo schiavo in Egitto: stremati dalla dura schiavitù, non possono ascoltare nient’altro che il proprio dolore. In questa condizione, l’intensità del dolore fa diventare difficili in rapporti in casa, con i vicini, con gli altri e persino con Dio. Eppure Dio ascolta, questa è la rivelazione del Libro dell’Esodo. Dio è fedele alla sua parola, rinnova la sua promessa, invita ancora il suo inviato, Mosè, a essere ostinato nella parola della speranza. Noi celebriamo l’Eucaristia in questo luogo e ricordiamo coloro che la malattia ha sottratto alla promessa di vita che è scritta in ogni giovinezza, per chiedere il dono di essere ostinati nella speranza, di essere capaci di rivolgere la nostra attenzione a Dio, trovando sufficiente energia per superare l’angoscia, integrando il dolore nella vita per non rimanerne schiacciati. Dio è in ascolto del nostro lamento. Dio è capace di sottrarci dalle mani del tiranno – come il faraone per gli israeliti- e da ogni male che rovina la vita».
La vita quotidiana e l’amore
E così anche se «il malato, la famiglia, il personale che si dedica alla cura possono essere logorati dalle condizioni che devono sopportare, dalle limitazioni, dalle minuzie, dalla burocrazia degli adempimenti esasperanti», la fatica non può far dimenticare l’amore.
«C’è qualche cosa di simile – osserva l’Arcivescovo – negli adempimenti richiesti dalla legge che i Giudei praticavano per essere coerenti con l’alleanza con il Signore. Gesù si pone di fronte alla legge antica non come colui che la cancella, ma come colui che dà compimento».
Un compimento che è l’amore: «che si vive nel gesto minimo, nell’attenzione quotidiana che interpreta anche le cose minute come un servizio per dire “io ti voglio bene”; che si compie nella pazienza che vince la tentazione dell’esasperazione con l’intensità dell’affetto. L’amore, infatti, non è una poesia che ignora la concretezza della vita, un sentimento di euforia che vaga tra le nuvole: è, invece, la dedizione spicciola, la cura per ogni particolare. L’amore vive di un’intensutà di affetto, ma anche di una minuzia di servizio. », conclude il vescovo Mario .
Il ringraziamento del direttore generale
Nelle espressioni del direttore generale Nicora, infine, il senso di una celebrazione vissuta come «una testimonianza che la morte non è mai l’ultima parola.
«Lei – evidenzia il Dg dell’Istituto, rivolgendosi direttamente all’Arcivescovo – ci ha ricordato come tante piccole cose devono essere portate a compimento, che occorre occuparci e preoccuparci delle persone con un’umana condivisione con chi soffre e chi ha bisogno di noi. Non si tratta solo di un problema di risorse e di organizzazione, che pure esiste, ma della relazione umana Se la malattia non può essere eliminata, il rapporto con il malato ci deve coinvolgere essendo uomini e donne di cura e di speranza. Possiamo curare perché siamo stati curati. Io richiamo sempre ai medici e ai ricercatori, di cui conosco le capacità e la generosità, di partire da una provocazione: guarire quando è possibile, curare spesso, consolare sempre. La cura e lo spirito di servizio ha sempre unito uomini di fede e di scienza».