Sabato 13 gennaio, alle 11, l’Arcivescovo presiederà una Messa presso l’Istituto nazionale dei tumori. Don Tullio Proserpio, cappellano dell’Istituto che rappresenta un’eccellenza assoluta della sanità italiana, spiega: «L’iniziativa nasce da un’esperienza che è attiva ormai da qualche anno, da prima della pandemia, all’interno del reparto di Pediatria dell’Istituto, intrapresa in particolare da parte di un’assistente sociale, ormai in pensione, che ha raccolto l’idea dei genitori dei bambini e dei ragazzi che non ce l’hanno fatta, di avere una “giornata della memoria” da vivere in modo semplice, non necessariamente e prettamente cattolica, perché ovviamente accogliamo le diverse sensibilità di ogni malato, credente o non credente, cristiano o non cristiano. Adesso, dopo il Covid, il Comitato Genitori ha avanzato la domanda di vivere in modo più preciso questa giornata con una Messa. Ho chiesto all’Arcivescovo che ha accolto l’invito».
I genitori dei ragazzi che purtroppo non sono sopravvissuti alla malattia stabiliscono un collegamento tra loro?
Sì. Si incontrano regolarmente o, comunque, sono connessi via web o whatsapp tutte le settimane. Questo è interessante, anche se razionalmente non è facile spiegarlo, perché si crea un legame particolare tra le famiglie che hanno perso un figlio o una figlia. Noi abbiamo un coordinatore che promuove vari incontri e iniziative e il Comitato si dà spesso da fare se c’è qualche bisogno in Pediatria. Ciò dice che, anche in una situazione tragica, l’ultima parola non è stata e non è mai la morte.
Qual è la situazione attuale dell’Istituto dei tumori dopo la pandemia? È vero che molti pazienti non fanno più controlli?
Noi non siamo mai stati un centro Covid, perché qui il problema principale è stato ed è sempre il cancro. È vero che, con le limitazioni imposte, molte persone non hanno potuto fare le visite e gli esami, ora – ancora con qualche attenzione come l’obbligo della mascherina – lentamente ci si sta riprendendo. Nei vari reparti si cerca di rispondere a una domanda crescente e costante perché l’Istituto rimane uno dei punti di riferimento nazionale e internazionale per la cura dei tumori, secondo i dati che vengono pubblicati, con le fatiche e le gioie di vivere in una situazione simile.
Crede che pregare, avere una missione di fede, ovviamente nel rispetto di ciascuno, all’interno del nosocomio, aiuti il cammino dei pazienti, tenendo anche conto che i cappellani ospedalieri, che partecipano a corsi di formazione specifica, sono ormai riconosciuti come parte integrante dell’equipe di sostegno ai malati?
La mia sensazione è che, talvolta, anche rispetto all’ambito prettamente religioso, si faccia molta confusione: ancora oggi, purtroppo, si raccolgono riflessioni come “la malattia è volontà di Dio”, oppure, “preghiamo perché Dio guarisca la persona”, ma il messaggio autentico del Vangelo è un altro. Quello che sostiene la speranza sono le buone relazioni, gli incontri con persone – ovviamente, possono essere anche i preti – che non dicono cosa si deve fare o cosa non si deve fare, cosa pensare, che non vogliono catechizzare nessuno soprattutto nel momento della malattia o del dolore, ma che si fanno compagni di strada con i malati. Nel momento della sofferenza, particolarmente quando si tratta di bambini, non esiste il maestro che insegna. La realtà porta a dire che davanti alle grandi domande della vita non abbiamo risposte persuasive e che muoversi con risposte ideologiche non porta a incontrare l’altro nel modo più vero.
Quali sono le speranze di un cappellano dell’Istituto dei tumori per il futuro di questo ospedale, ma anche per coloro che ha conosciuto in questi anni?
Spero che la medicina e la ricerca clinica e scientifica facciano il loro corso e si possano sempre più aiutare un numero crescente di pazienti a raggiungere la guarigione. Come cappellano desidero, naturalmente, che sia maggiormente riconosciuta e valorizzata la spiritualità in senso ampio perché un accompagnamento spirituale può aiutare la persona a confrontarsi meglio con la situazione di malattia e perché, arrivando a dare un senso alla fatica e al dolore, si può trovare una strada per uscire da una situazione problematica. Come prete, spero solo che tutti possano incontrare il Signore.