«Per lo scetticismo contemporaneo la religione è una raccolta di espressioni folcloristiche che suscita curiosità, per altri è una serie di tradizioni identitarie usate per difendersi, attaccare, fare proselitismo, mentre noi pratichiamo la religione come una via per giungere a Dio». Potrebbe essere questa, in estrema sintesi, la convinzione che ha animato l’articolato convegno a più voci, svoltosi presso la Sala delle lauree della Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano, e chiuso dall’Arcivescovo con queste parole.
Un incontro atteso e affollato, promosso dalla Coreis (Comunità Religiosa Islamica Italiana), per festeggiare i suoi trent’anni e quelli della fondazione della moschea centrale Al-Wahid di Milano, oltre che i cinque anni dalla firma della Dichiarazione sulla “Fratellanza umana per la Pace mondiale e la Convivenza comune”, siglata ad Abu Dhabi da papa Francesco e dall’imam Ahmad al-Tayyeb, presidente del Consiglio dei Saggi Musulmani. Con il titolo «L’attualità dei maestri in tempi di crisi», l’assise è stata così occasione per affrontare i temi della fratellanza religiosa e della coesione sociale. Come è emerso da tutti gli interventi e dai saluti istituzionali, da quello dal prorettore della Statale delegato all’internazionalizzazione, Antonella Baldi – a cui, al termine dell’incontro, si è aggiunto anche il rettore Elio Franzini -, a quello della vicesindaco di Milano Anna Scavuzzo.
Abbattere la cultura del sospetto
«In una città che tanto si sta interrogando sul suo ruolo, riflettere su questi trent’anni guardando al futuro, da un luogo come l’Università è importante e significativo – ha osservato Scavuzzo -. Vogliamo proseguire nel futuro, consapevoli delle fatiche che stiamo attraversando, ma sapendo che la cura con cui vogliamo far crescere i nostri giovani è anche cura delle differenze. In questa logica il Comune ha conferito, nel 2008, la benemerenza civica alla Coreis. Penso ai percorsi che ci vedono insieme nelle scuole per una conoscenza reciproca delle religioni, cosi come accade con la Comunità ebraica e molte realtà cristiane in una città che non vuole perdere la sua anima. Dobbiamo essere degni dei grandi maestri che ci hanno preceduto», ha aggiunto la vicesindaco, con espressioni che sono tornate nel saluto del presidente della Coreis Abu Bakr Moretta – che ha richiamato l’anelito spirituale alla pace che ha sempre caratterizzato la Comunità – e nel messaggio del giudice Muhammad Abdelsalam, segretario generale del Consiglio musulmano degli Anziani.
Ad aprire gli interventi è stata Chiara Ragni, docente di Diritto internazionale in Statale, che ha delineato un orizzonte generale nel quale inserire la questione della fratellanza e il suo sviluppo.
Sulla figura di San Francesco si è soffermato invece fra’ Francesco Ielpo, commissario di Terra Santa per l’Italia e grande conoscitore della realtà mediorientale per avervi vissuto molti anni: «La mia fede, l’adesione al cristianesimo e la mia identità francescana sono state arricchite, in tanti anni in Terra Santa, dalla fede dei fratelli maggiori ebrei e dai fratelli islamici, perché questo mi ha costretto ad andare nel mio profondo e scoprire i segni di bene che il Signore ha posto in ogni fratello e sorella. Francesco aveva stima previa per ogni altra esperienza e, se pensiamo a un altro Francesco, il Papa, tornano alla mente le parole da lui pronunciate nel 2021 in Iraq, quando, citando la Genesi, disse: “Dio chiese ad Abramo di alzare lo sguardo al cielo e di contarvi le stelle. In quelle stelle Abramo vide la promessa della sua discendenza, vide noi”. Oggi più che mai serve alzare lo sguardo per camminare bene sulla terra avendo stima previa di tutti. L’incontro di san Francesco con il sultano Malik al-Kāmil, nel 1219 in piena V crociata, fu una follia, e, forse, anche adesso abbiamo bisogno di maestri, ma anche di folli capaci di pensare l’impensabile. Aiutiamoci reciprocamente a uscire dalla zizzania del sospetto».
L’insegnamento della Torah
«Nell’ebraismo la preghiera per eccellenza, che si ripete più volte al giorno, si conclude con l’invocazione della pace e i nostri maestri ci dicono che l’unico “recipiente” per le benedizioni è la pace e che, quindi, senza pace non c’è benedizione», spiega rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano che subito mette in guardia: «La pace non è un concetto semplice, perché rischia di essere retorico. Hanno parlato di pace i personaggi peggiori di questo mondo, Hitler lo ha fatto. Il problema è cosa voglia dire il termine pace, in ebraico shalom, che deriva dalla radice shalem, che è presente anche nel nome di Gerusalemme, città della pace. Shalem significa integrità, ma ci sono due modi di interpretarla. Il primo suggerisce: “Io sono integro e perfetto e gli altri si devono adeguare e così ci sarà la pace”. Questo concetto è devastante ed è alla base di ogni integralismo e conflitto. E, poi, c’è il modo di aspirare a diventare shalem, tentando di migliorarsi, guardando al domani».
Chiarissimo, il rabbino capo, anche sull’idea della fratellanza: «Dio ha creato un solo uomo perché nessuno possa vantare una superiorità, ma leggete la Genesi e vedrete tutta una serie di conflitti tra fratelli. E allora come uscirne? “Io cerco i miei fratelli”, dice Giuseppe dopo essere stato venduto da loro. Questo significa impegnarsi, provando a superare il conflitto, non negandolo, ma sapendo che esiste un valore superiore, la ricerca di una fratellanza. Questa è la strada: non dare niente per scontato, non negare o sminuire i conflitti, capire che gli uomini non sono necessariamente buoni, ma credere fermamente che si possa lavorare per fare emergere la tendenza al bene contrastando il male».
La “scienza sacra” del dialogo
Sulla vicenda di Giuseppe, riportata anche nel Corano, e sulla sua emblematica simbologia ha annodato il suo intervento Yahya Pallavicini, imam della moschea Al-Wahid e vicepresidente della Coreis: «Nella storia di Giuseppe, non c’è un omicidio, ma una farsa perché i fratelli fanno credere al padre che Giuseppe sia morto. Le circostanze, poi, cambiano e non soltanto Giuseppe non muore, ma diventa il consigliere di un uomo di grande potere. E mentre svolge questo ruolo, i suoi fratelli riappaiono davanti a lui e non lo riconoscono. Su questo i maestri del Corano insistono: siamo talmente presi dalle nostre storie che non riconosciamo i fratelli. Attenzione alla perversa manipolazione della realtà, alla farsa, all’alternativa alla possibilità di un’interlocuzione onesta e chiara. Attenzione, nel dialogo interreligioso, al misconoscimento. Occorre il riconoscimento nella differenza senza il culto delle differenze – un’altra malattia ideologica del nostro tempo -, con una tensione conoscitiva che passa dal dialogo, dall’incontro, dalla collaborazione fraterna e dalla conoscenza di se stessi, scoprendo così Dio in noi. Abbiamo bisogno di una sorta di scienza sacra del dialogo».
L’intervento dell’Arcivescovo
Infine, è l’Arcivescovo a definire il senso del momento che stiamo vivendo.
«In questo tempo avverto che le parole si vergognano perché non sanno più comunicare; risuonano, ma vengono meno al loro scopo. Parole che vengono taciute, che non si possono dire, che non riescono a trasmette ciò per cui vengono pronunciate. Le parole si inceppano di fronte alla reazione degli altri perché ci rendiamo conto che sono parole che innervosiscono. Vorremmo dire, ma non riusciamo. Si deve anche riconoscere che le parole si sono sporcate, ricoperte di polvere. Pace è la parola che contiene tutte le benedizioni e i pensieri, ma anche su questa si è gettato il fango. E così per altre parole bellissime come religione. In questo imbarazzo, forse, può dare supporto la figura di qualche maestro, come Francesco di Assisi e Charles de Foucauld: per me, un maestro perché ci offre la testimonianza di un modo di essere religiosi che smentisce l’interpretazione razionalistica contemporanea della nostra cultura delle religioni». Quella, appunto, della fede vista come folclore o alibi per attaccare e fare proselitismo. Da qui, la conclusione: «La pace, la fraternità, la fratellanza sono opere di Dio e, dunque, penso di aver imparato da De Foucauld che questo è il tempo per confidare in Dio perché ci apra gli occhi e ci indichi la via del pentimento dei nostri peccati».