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Speciale

L’Arcivescovo in Congo

Sirio 11 - 17 novembre 2024
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Intervista

Delpini: «In Congo germogli per una primavera?»

Tra problemi enormi e confortanti segni di speranza, il bilancio dell’Arcivescovo a conclusione del suo viaggio nel Paese africano

dI Annamaria BRACCINI

2 Settembre 2024
Monsignor Delpini incontra gli studenti cattolici dell’Università pedagogica nazionale di Kinshasa

A qualche giorno dalla conclusione del suo viaggio missionario in Congo l’Arcivescovo traccia un primo bilancio non solo dell’esperienza nel Paese africano, ma anche della precedente visita in Perù, svoltasi dal 15 al 26 luglio scorsi.

Monsignor Delpini quali sono gli aspetti che più l’hanno colpita del suo viaggio missionario nella Repubblica democratica del Congo?
Ho visto solo una parte della grande capitale Kinshasa, ho visto solo per pochi giorni. Ho visto l’assurdo e ho visto l’inatteso. L’assurdo è l’abitare di un numero imprecisato di persone (15 milioni? 20?) lungo strade in ostaggio di un traffico esasperante, strade su cui si affacciano senza interruzione chioschi per ogni mercanzia, chiese di ogni confessione, in ambienti senz’acqua, senza fognature, senza raccolta dei rifiuti, con limitata fornitura di energia elettrica. L’inatteso è l’aprirsi di giardini ben curati, di strutture accoglienti, di sorrisi e di generosità, varcando l’ingresso di una struttura sanitaria o educativa o assistenziale gestita da suore, preti, laici a servizio del contesto assurdo.

Alla vigilia della partenza lei aveva detto: «Dalla mia visita a una Chiesa così segnata dalla sofferenza e dalla passione per il Vangelo, mi aspetto di vedere qualche germoglio di una possibilità nuova, ma vedo anche un messaggio di speranza per tutta la nostra Chiesa ambrosiana che sembra qualche volta invecchiata e rassegnata». Questo auspicio si è realizzato?
Di speranza ne ho vista poca. Quando ho chiesto: «Le cose vanno meglio o peggio di quando sono venuto l’altra volta nell’estate 2019?», non ho ottenuto risposte incoraggianti. Ho visto però giovani, ho ascoltato canti, sono stato coinvolto nelle danze. Celebrazioni festose, colorate, accompagnate dalla generosa condivisione. Nelle comunità religiose sta finendo la generazione degli italiani che hanno avviato la presenza di un’opera in Kinshasa e giovani donne e uomini stanno preparandosi alla sostituzione. Dunque la vita consacrata esercita un’attrattiva nella Chiesa della Repubblica democratica del Congo: c’è una riserva di giovinezza inesauribile nella Chiesa. Nei giorni della nostra visita a don Maurizio e a don Francesco, il 18 agosto, s’è celebrata a Uvira, in una regione molto lontana da Kinshasa, la beatificazione di quattro martiri trucidati nel 1964 (due preti saveriani, padre Luigi Carrara e padre Giovanni Didonè, un fratello saveriano, Luigi Faccin, e un prete congolese, padre Albert Joubert) in un contesto di violenza anti cattolica e anti europea. Questo ci ha dato motivo per ricordare i santi congolesi: religiose, religiosi, laici vittime della violenza o delle malattie affrontate per non abbandonare i malati, come le Suore Poverelle di Bergamo, morte a causa dell’Ebola. Il sangue dei martiri e la testimonianza dei santi non saranno senza frutto. Dunque: la giovinezza, il martirio, l’autorevolezza di una Chiesa dedicata al servizio della gente. Saranno germogli per una necessaria primavera? Io credo che la Chiesa cattolica in Congo sia forse l’unica presenza capillare autorevole che può influire sulle vicende del Paese.

Il ricordo dell’ambasciatore Luca Attanasio, commemorato in una celebrazione da lei presieduta, è ancora vivo?
Dovunque sono stato – in cliniche, ambulatori, comunità di suore, istituzioni educative -, ho sentito ripetere: «Luca veniva spesso a trovarci. Luca e sua moglie si interessavano sempre di noi. Quel generatore di energia elettrica ce lo ha procurato Luca. Qui abbiamo le galline di Luca». Più che un ricordo mi è sembrato di incontrare una presenza, feconda di bene, anche perché la moglie di Luca continua lo stile semplice e l’opera generosa del marito.

Qual è l’emergenza più grave che minaccia il Congo e la Chiesa locale e su cosa insistere, come Chiese sorelle, per apportare qualche miglioramento?
Dicono di una corruzione paralizzante. Dicono di intere regioni dell’immenso Paese fuori controllo. Dicono di un continuo afflusso verso la capitale che moltiplica i problemi. Dicono che in gran parte le iniziative di assistenza e di formazione dipendano dall’aiuto esterno, spesso dalla Chiesa italiana e da benefattori generosi. Mentre interessi stranieri saccheggiano un territorio di straordinaria ricchezza, il servizio alla gente non trova nel Paese risorse e organizzazione per migliorare la vita ordinaria. Credo sia necessaria una generazione nuova, fiera, compatta per un modello di sviluppo, di società, di impresa che possa assomigliare a un rinascimento.

Questa è stata, per l’Arcivescovo di Milano, un’estate in gran parte «missionaria» con i viaggi in Perù e in Congo. Come definirebbe questa esperienza?
Il mondo è troppo grande, i Paesi sono troppo diversi, i problemi sono troppo complicati: non si possono formulare pensieri semplici. Ci si rende conto di essere inadeguati a comprendere la realtà: i grandi numeri, gli spazi immensi, lo sfruttamento insensato, l’ingiustizia scandalosa, i centri di potere irraggiungibili e insindacabili, la latitanza di istituzioni internazionali che abbiano incidenza significativa, tutto mi lascia smarrito. Ma la gente, la gente semplice, vive, sopravvive, sogna, canta, scrive poesie, crea opere d’arte, mette al mondo bambini: tutto mi incanta. Sono tornato a Milano pieno di ammirazione per quello che fanno i preti, le suore, i volontari che vengono dalla nostra Diocesi. Sono tornato stupito di vedere qui una condizione di benessere, di organizzazione, di servizi che non ha eguali altrove. Ho ritrovato stanchezza, là dove ci potrebbe aspettare un senso di responsabilità che rende solidali, ho ritrovato un mondo invecchiato là dove potrebbe abitare la giovinezza del mondo; ho ritrovato rassegnazione e generosità insieme, ho ritrovato notizie noiose e una cauta indifferenza. Mi chiedo: saremo all’altezza delle nostre responsabilità?

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