«Come raccontare la gioia piena che Gesù promette ai suoi discepoli, l’esultanza dell’anima che Isaia testimonia?». Così domanda l’Arcivescovo Mario Delpini alla celebrazione delle quattro giovani originarie del Myanmar (un Paese dove la Chiesa è ancora perseguitata), che oggi hanno professato per sempre i Consigli evangelici davanti alla Comunità diocesana e sono diventate religiose dell’Istituto delle Suore della Riparazione. La risposta più bella alla domanda dell’Arcivescovo, che nella basilica di sant’Ambrogio apre la Messa, concelebrata da una quindici sacerdoti, tra i quali il vicario episcopale per la Vita consacrata, monsignor Walter Magni e il vicario episcopale per la Zona pastorale I – Milano, monsignor Giuseppe Vegezzi, entrambi accanto al vescovo Delpini sull’altare maggiore.
Tra i presbiteri anche monsignor Claudio Stercal che da più di trent’anni segue le Suore della Riparazione, fondate nel 1859 da padre Carlo Salerio e da Maria Carolina Orsenigo, presenti in Myanmar dal 1895 (il noviziato fu inaugurato nel 1921) e conta oggi quasi 400 religiose, dedite all’insegnamento, alla cura dei più poveri e agli emarginati.
Così Augusta Nga Mar, Helen Phyu Mar Wai, Josephine Ja Doi e Judith Kanan, provenienti da diverse diocesi del Paese del sud-est asiatico (tutte tra i 25 e 30 anni) hanno deciso di diventare suore di questo Istituto, avendone conosciuto il carisma, originariamente – come volle Salerio – dedicato a sostenere le ragazze provate da povertà, disagio e ai margini della società. A loro e alle tante connazionali e consorelle presenti si rivolge direttamente l’omelia dell’Arcivescovo, che proprio al Myanmar quale terra di gemme preziose, fa riferimento.
L’omelia dell’Arcivescovo
«Il Myanmar, terra di gioielli – ha commentato l’Arcivescovo – ha offerto nuovi segni di riconoscimento per coloro che seguono Gesù e che sono chiamate a stare con lui. Nelle nostre terre, in Italia, in Europa, si è diffusa la mentalità dei servi e le ragazze italiane ed europee hanno paura di incontrare Gesù. Hanno paura che Gesù pretenda da loro delle rinunce, dei servizi, hanno dei pregiudizi su Dio e lo immaginano come un padrone esigente che mortifica la libertà. Si insinua anche nei cristiani la mentalità del servo: bisogna fare come vuole il padrone. La mentalità del servo immagina l’abito delle suore come un’uniforme, una rinuncia all’originalità, un conformismo noioso. Ma Gesù ha raccolto pietre preziose in una terra generosa», radunando «una comunità di amici e di amiche».
Tra queste gemme, ha donato il rubino «che custodisce il fuoco. Il suo rosso splende di una fiamma piena di fascino e di promessa. Il rubino è un simbolo dell’amore ardente che brucia per sempre. La pietra preziosa adorna il cuore delle donne consacrate per sempre. La consacrazione con i voti perpetui è questo mistero che attraversa il tempo senza lasciarsi oscurare, è la fedeltà vissuta come un ardore che trasforma ogni giorno in un’occasione per raccontare le meraviglie di Dio, le confidenze di Gesù. La fedeltà è il contrario della noia della ripetizione, è piuttosto lo scintillare meraviglioso della gioia».
Non manca tra i doni il verde della giada, «simbolo dello stato sociale, che ha catturato il verde delle foreste tropicali, l’esuberanza della vita, l’eccellenza della dignità. Lo Spirito di Dio ha raccolto la giada del Myanmar per rendere illustri le persone che seguono Gesù, il re dei re, il Signore dei Signori. Le consacrate insignite con la giada preziosa testimoniano l’altezza della loro dignità».
Lo splendido e raro blu indica invece il «segno dell’equilibrio, dell’armonia, del benessere emotivo e della chiarezza mentale. Lo Spirito di Dio ha donato il gioiello blu che ha catturato le profondità del cielo d’oriente perché gli amici e le amiche di Gesù si riconoscano per il fatto che vivono nella pace, anche quando sono tribolate e affaticate dal troppo lavoro e segnate da molte lacrime per la compassione che provano per il loro Paese tribolato».
«Le nostre sorelle del Myanmar ricevono le pietre preziose della loro terra e la grazia di conservarle per sempre: il rubino rosso vivo, per custodire l’ardore dell’amore nella fedeltà dei giorni, la giada verde intenso per manifestare l’altezza della loro dignità e della loro vocazione, lo spinello blu per custodire la sapienza della pace».
La celebrazione è proseguita con i riti della Professione religiosa con ogni professa che, chiamata per nome da monsignor Magni, ha risposto con il proprio “Eccomi”, il “Sì, lo voglio”; le litanie dei Santi mentre sono prostate a terra, la formula della professione perpetua – i tre voti di castità, povertà e obbedienza – pronunciata dalle candidate, accompagnate dalla Superiora generale, madre Valentina Pozzi, e dalle consorelle testimoni. La preghiera di consacrazione scandita dal vescovo Mario con le neoprofesse in ginocchio davanti a lui e la consegna dei simboli dell’appartenenza a Dio e alla Chiesa, le Costituzioni e l’anello. Con La gioia e la commozione dei presenti che si scioglie in un lungo, festoso, applauso.