Si può entrare in un ospedale senza pensarlo solo come un luogo di malattia e di sofferenza? Probabilmente tutti ci siamo posti questa domanda. E, giustamente, speriamo di doverci entrare il meno possibile. Ma anche in questi luoghi si può essere «Apprendisti di felicità» – questo il titolo della lettera dell’Arcivescovo agli adolescenti per quest’anno giubilare – e, insieme, pellegrini di speranza. Così, lunedì 10 febbraio alle 19, sarà l’ospedale San Gerardo di Monza la prossima tappa del tour promosso dalla Fom «L’Arcivescovo vi invita…» alla scoperta delle opere di misericordia che monsignor Delpini propone ai ragazzi, per scorgere la possibilità di gesti concreti di bene anche in situazioni che ci appaiono scomode e, possibilmente, da evitare.
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Così, se tutti possiamo trovarci impreparati o addirittura in imbarazzo di fronte a un contesto di malattia, l’Arcivescovo suggerisce ai ragazzi che «anche l’ospedale ha una voce, è fatto di uomini e donne che sanno e che aiutano». E, dunque, «si può chiedere a loro: come fate? Che cosa dite? Che cosa possono fare parenti e amici?».
Nell’incontro presso la chiesa ospedaliera monsignor Delpini e un centinaio di ragazzi ascolteranno alcuni operatori sanitari impegnati da anni nella cura di bambini e ragazzi affetti da leucemia e altre patologie ematiche. Racconteranno il proprio lavoro il dottor Momcilo Jankovic – famoso come il “Dottor sorriso” proprio per la grande empatia sempre dimostrata verso i suoi giovani pazienti – e due infermiere del Comitato Maria Letizia Verga: tra loro anche chi in questo reparto ha assistito nei suoi ultimi giorni Carlo Acutis, morto proprio per una leucemia fulminante. Interverrà inoltre una delle insegnanti impegnate nella scuola interna all’ospedale. È pronta a raccontare in prima persona la propria esperienza anche una ragazza ora in cura al San Gerardo, ma per lei si attende l’ok dei medici.
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Don Gabriele Catelli, da pochi mesi cappellano al San Gerardo, si pone in scia dell’Arcivescovo e invita a un cambio di prospettiva nel pensare all’ospedale: «È vero, questo è il luogo della sofferenza, dove la malattia è in evidenza. Ma, soprattutto, è il luogo dove questa sofferenza viene lenita; dove – anche se la parola guarigione non può sempre essere usata – ci si prende cura di chi è ricoverato». Così don Gabriele condivide alcune impressioni che ha raccolto nei suoi primi mesi come cappellano: «È sì un luogo comune, ma effettivamente ciò che sento ripetermi da chi entra in ospedale è che in questi momenti ci si rende conto della bellezza della vita “di fuori”. Ho notato poi – prosegue – che la malattia non è qualcosa che riguarda solo chi è ricoverato, ma “contagia” tutta la comunità: la famiglia, gli amici, la scuola. C’è bisogno, quindi, che tutta la comunità si prenda cura di chi è malato e si “curi” essa stessa».
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Da qui l’invito anche ai gesti più semplici. Ci si chiede: cosa posso fare? Cosa posso dire? «Ci sono mille domande che ci tengono lontano dalla malattia e purtroppo, spesso, anche dall’ammalato», riconosce il sacerdote. «Penso però – prosegue – che agli adolescenti l’Arcivescovo desideri dire: andate a visitare i vostri compagni, i vostri nonni che sono ricoverati. Non abbiate paura di cosa potete dire; quello che conta è esserci, anche senza risposte che nessuno pretende di poter dare davanti a queste situazioni».
Don Riccardo Brena, da diversi anni parroco dell’ospedale, conferma che per i ragazzi che sono vicini ai loro coetanei malati, questi suggerimenti sono già gesti concreti: «Dalle raccolte fondi a sostegno della ricerca scientifica alla collaborazione con le scuole, fino, per chi vive un’esperienza di fede, alle tante catene di preghiera con cui nelle parrocchie si sostiene il cammino delle famiglie che attraversano questo momento di malattia e di grande sofferenza».