Il Concilio Vaticano II è un enorme tesoro che ci è stato donato: uno scrigno colmo di doni tra cui il valore della collegialità. Lo hanno scoperto da subito i Padri conciliari perché non era affatto scontato che sapessero stare insieme, che imparassero un metodo di lavoro e che riuscissero a dare forma concreta alla loro collegialità. Non è un caso che uno dei frutti del Concilio siano stati proprio gli organismi di partecipazione: Consigli pastorali parrocchiali, diocesani, per gli affari economici.
Al numero 12 della Lumen gentium si dice: «Tutti i battezzati sono profeti, hanno uno spirito di profezia e tutti hanno il sensus fidei, cioè una capacità di penetrare il senso spirituale della Parola e di interpretare l’azione dello Spirito, i disegni di Dio all’interno della storia». In altre parole tutta la comunità è chiamata a costruire una fraternità evangelica e a farsi carico della fede degli altri, della fede dei fratelli anche attraverso questi strumenti di partecipazione.
L’esperienza dei Consigli pastorali rimanda, tuttavia, spesso a un’immagine in cui è evidente il divario tra ideale (tutti i battezzati sono corresponsabili e devono farsi carico della missione evangelizzatrice della Chiesa) e realtà spesso insoddisfacente e ben lontana dalle aspettative. Possiamo trovarne la causa di ciò in alcune idee errate che provo qui a sintetizzare.
La prima è legata alla presenza dei laici spesso individuati tra i più rappresentativi della comunità. In realtà nei Consigli dovrebbe essere presente la pluralità dei ministeri, delle condizioni di vita, delle sensibilità presenti in parrocchia. La diversità di carismi come ricchezza e attenzione a tutti.
Li pensiamo, anche, come luoghi di rappresentatività dei vari gruppi, delle loro iniziative, dove ciascuno può presentare un po’ ciò che fa e magari pianificare, calendarizzare le proprie iniziative, ma dove finisce per soffocare la creatività dello Spirito. Altre volte sono colti come l’opportunità data ai laici «per parlare e dire la loro, ma poi, in fondo non cambia nulla». Infine, c’è l’eterna domanda che spesso si sente ripetere: questi Consigli soltanto consultivi a che servono?
Tutto ciò finisce per mortificare «l’azione del consigliare»: chi guida la comunità non può leggere la realtà da solo, ma ha bisogno del contributo di tutti per capire quali sono i cammini da proporre. Non gli è consentito, perciò, ignorare i consigli offerti da consiglieri aperti, maturi spiritualmente. Allo stesso tempo, tuttavia, chi consiglia non può immaginare di aver assolto il suo compito solo perché ha espresso un parere.
Non si tratta, infatti, di offrire il proprio punto di vista, una sensibilità ecclesiale o un gusto particolare rispetto ai problemi posti, quanto comunicare la sintesi di un attento lavoro di riflessione, studio, preghiera. Il consiglio buono non è mai improvvisato, frettoloso, imprudente o di parte. Nasce da una visione dei problemi pastorali nel loro valore più autentico e profondo, che è, sempre, un valore teologico, spirituale, pastorale. Perché compito dei consiglieri è prendersi cura della fede dei loro fratelli e, insieme, assicurarsi che tutti possano vivere l’incontro con il Signore Gesù.
Ciò significa riportare le attese, i desideri inespressi della comunità, far emergere i vuoti, le omissioni, i ritardi in questo compito di testimonianza. Suscitare una riflessione autentica su come dare slancio missionario alla comunità, perché si prenda a cuore non soltanto di chi già partecipa, ma anche dei battezzati che si sono allontanati, dei non credenti e quelli che magari sono sulla soglia e che vorrebbero ricominciare. Tutto ciò non è un fatto automatico, richiede un processo laborioso di maturazione delle persone e delle comunità.
Si tratta di mettersi in cammino insieme: laici e presbiteri per compiere per primi, quei passi di comunione che vorremmo che tutta la comunità facesse.