Ventun anni di una vita già entrata nella storia della città e della Chiesa di Milano e un grande futuro davanti. Potrebbe essere questa, in estrema sintesi, la definizione di ciò che è oggi Casa della Carità, che nei giorni scorsi ha terminato i festeggiamenti per il suo ventunesimo anniversario. Un presidio di civiltà, accoglienza, inclusione e cultura, voluto dal cardinale Carlo Maria Martini a conclusione del suo episcopato ambrosiano come casa “per gli ultimi degli ultimi” e affidato per un ventennio a don Virginio Colmegna – neo presidente onorario -, a cui è succeduto don Paolo Selmi. È appunto lui, sacerdote diocesano, classe 1966, a riflettere su questo primo anno di presidenza della Casa (quasi compiuto, essendo stato nominato dall’Arcivescovo a febbraio 2023).
«I primi mesi sono stati impegnativi, perché per me era una realtà nuova. Però, da subito, mi sono sentito a casa e dentro un’équipe ben radicata, perché una parte degli operatori è impegnata nella struttura da tanti anni, anche se ben 40 sono i giovani assunti da poco. Qui si respira una professionalità, una cura e una passione che caratterizzano tutti. Per questo devo dire che mi sento ben accompagnato, ben custodito e anche sicuro», sottolinea don Selmi, che oltre a guidare la Casa e anche vicedirettore di Caritas ambrosiana.
Casa della Carità è circondata da un’amicizia e da un rispetto del tutto particolari da parte dei cittadini e delle istituzioni. Basti pensare che, secondo Statuto, l’Arcivescovo e il Sindaco di Milano sono garanti della Fondazione. Si avverte tutto questo?
Sì, è un’amicizia che è custodita e caratterizzata da queste due figure, ma che poi si allarga a tutta la cittadinanza, credente e non credente, come vediamo dalle donazioni che ci arrivano, ma anche dai tanti volontari che si presentano. Questo è molto bello, soprattutto perché tanti possano riprendere a vivere, diventando, da invisibili, visibili.
Vi siete ben inseriti anche in una zona non facile come il quartiere Adriano, degradato ai tempi dell’inizio dell’attività e che oggi sta cambiando velocemente come tante periferie metropolitane…
Adesso il quartiere si è risollevato e, certamente, Casa della Carità ha dato il suo contributo. Siamo molto ben inseriti e, potremmo dire, che è stata un’azione anche di inculturazione. Quando si seppe che in via Brambilla sarebbe stata aperta una casa di accoglienza per immigrati poveri, tra gli abitanti del quartiere vi fu un po’ di preoccupazione. Tuttavia, immediatamente, la saggezza di don Virginio e degli operatori portò a creare relazioni e contatti con il territorio, spalancando le porte della Casa, per esempio, agli anziani che tuttora hanno qui, due volte alla settimana, un Centro diurno. Questo ha dato modo di allentare una tensione che oggi, comunque, non si sente assolutamente più. C’è davvero una buona integrazione, anche grazie al lavoro dei nostri 120 volontari, provenienti sia dal quartiere, sia da altre zone.
Quante persone vengono accolte quotidianamente?
Le persone ospitate in Casa, in questo momento, vanno dalle 100 alle 110. Poi c’è accoglienza, diciamo, degli esterni che vengono per il Centro d’ascolto, per i servizi legali, per l’infermeria, le docce o per il guardaroba. Vorrei anche sottolineare l’iniziativa innovativa Arcturus (leggi qui, ndr) – avviata con Regione Lombardia, di 10 enti del terzo settore milanese per ATS Milano-Città metropolitana -che nasce dalla volontà di includere persone particolarmente vulnerabili dentro il sistema di cura cui, normalmente, non accedono, come ha spiegato don Virginio.
A proposito della Casa della Carità il cardinale Martini disse che il bene implica una sorta di squilibrio, perché si va al di là del semplice do ut des... Lei come interpreta queste parole?
Questa espressione – che evidenzia la verità evangelica, come diceva ancora Martini, di un uomo che cerca e trova se stesso squilibrandosi, ossia donandosi gratuitamente – mi causa una sorta di sofferenza in senso positivo. Questo squilibrio, infatti, diventa sofferenza quando vediamo che, dopo avercela messa tutta per affrontare una situazione, averla custodita e fatta crescere, per motivi diversi, ci si “ferma”. Faccio un esempio molto concreto. Casa della Carità ha accolto alcune famiglie afghane numerose e ricche culturalmente. Si sono inserite bene, hanno trovato lavoro, i figli studiano e il progetto per loro sta giungendo a conclusione. Questo significa che devono iniziare una vita in autonomia. Ma a Milano gli affitti sono molto alti: quindi, dove andranno e che cosa faranno? Dovranno abbandonare il quartiere nel quale si sono radicati.
Come presidente di Casa della Carità ha un sogno nel cassetto o qualche iniziativa che vorrebbe vedere realizzata nel breve periodo?
Il sogno è quello – ma da tempo si sta già realizzando e ci stiamo lavorando con l’impegno da parte di molti – di una rete sempre più stretta di collaborazione tra realtà del territorio che, nel medesimo tempo, non imbrigli nessuno. Non è più il tempo di lavorare da soli: dobbiamo essere incidenti nella realtà del nostro vissuto cittadino, aiutarci insieme a leggerci dentro questa eccedenza di carità, interpretandola con segni e gesti concreti, evidenti.