Partirò da una duplice esperienza personale di questi giorni (ma replicata in passato e replicabile a piacere, lo temo, anche in futuro). Il Louvre, per uno scambio con una tela di Palma il Giovane custodita dalla Pinacoteca Ambrosiana e necessaria per una mostra parigina, mi concede da aprile a novembre la Cena di Emmaus di Tiziano così da poterla esporre ai milanesi e ai lombardi. A maggio, sempre all’Ambrosiana, si inaugura un’esposizione delle incisioni di Rembrandt possedute dall’istituzione voluta dal cardinal Federico Borromeo: si tratta dell’unica presenza del celebre pittore in Milano che, in tal modo, può celebrare il quarto centenario della nascita dell’artista in forma “personale”.
Ebbene, per la promozione pubblicitaria di queste due mostre – che sono in sé a costo zero – provo a bussare a enti pubblici e privati di ogni genere e il risultato è quasi del tutto negativo. Certo, se avessi proposto la sponsorizzazione di un evento sportivo o di una sfilata di moda, l’esito sarebbe stato diverso.
In questi ultimi anni si è appunto assistito a una progressiva indifferenza nei confronti della cultura e dei suoi beni, come è attestato dalle contrazioni dei fondi ad essi destinati sia ai livello di politica nazionale sia in ambito locale (anche se in quest’ultimo caso ci sono notevoli e lodevoli eccezioni, soprattutto in città di provincia e in comuni).
Certo, si sa che spesso sotto il capitolo “cultura” si contrabbandano banalità e pure e semplici scempiaggini o, peggio, interessi privati. Ma non è possibile ignorare (e se lo si fa, si è in mala fede oppure ottusi) che l’Italia – come spesso si dice con un po’ di cattivo gusto – ha il suo petrolio proprio nell’arte e la brutta locuzione “giacimenti culturali” ha, al riguardo, un senso genuino.
Eppure, l’italiano medio è sostanzialmente indifferente nei confronti di questo suo straordinario patrimonio, come lo sono i suoi governanti. In questi ultimi tempi si è preferito introdurre una nuova trinità da venerare, Inglese-Informatica-Impresa, spodestando non solo la Trinità cristiana ma anche le triadi classiche sul modello Omero-Agostino-Dante.
Si approfondisce, così, sempre più quell’indifferenza, che non di rado si trasforma in sprezzo barbarico (pensiamo ai monumenti deturpati dai graffiti, dagli sfregi e dagli usi impropri). Le cause di questo abbassamento, che ha un riflesso proprio nella politica culturale spesso ridotta a una cenerentola o affidata a eventi modesti e vani, sono state spesso studiate e non è il caso di riprendere una lunga e inascoltata lamentela. Voglio, però, segnalare almeno una di queste ragioni. L’incapacità dell’italiano di apprezzare e godere della bellezza sboccia già nella scuola ove è, ad esempio, assente la musica, ove l’educazione alla lettura di un’opera d’arte ma anche della stessa letteratura è affidata a scarse competenze e a programmi semplificati, ove la formazione del gusto è assente.
Da questa radice si comprende come si possa progressivamente dilagare verso una sorta di atmosfera generale che, favorita dall’imbolsimento mentale indotto da una certa comunicazione di massa (si pensi all’egemonia del reality show televisivo), penetra nella politica, invade la stessa urbanistica e lambisce anche la vita ecclesiale. A questo proposito, bisogna purtroppo riconoscere, ad esempio, che la liturgia talora si immiserisce in canti malandati, in riti abboracciati, in chiese che Turoldo comparava a garage sacrali. Eppure è possibile ritornare a una purificazione dell’occhio e del gusto, anche attraverso la stessa comunicazione stampata, televisiva o telematico-virtuale.
Avrà pure un senso in questi ultimi tempi l’affollarsi di centinaia e centinaia di persone ad ascoltare le letture della Divina Commedia o di testi classici epici e filosofici. Anche a me è accaduto di commentare un canto dell’Odissea davanti a una folla di giovani e di adulti seduti persino sul gelido pavimento di un’immensa chiesa milanese durante una buia serata novembrina. Oppure di vedere alcune centinaia di giovani occupare la porta dell’aula magna dell’università di Bologna, già traboccante di presenze, per essere ammessi a una lettura commentata di testi biblici. O ancora di assistere a code interminabili per visitare una mostra di dipinti, forse anche non del tutto esaltante nella sua selezione.
Si deve, allora, continuare a premere perché non si perda questa straordinaria identità culturale del cittadino italiano, memori del fatto che essa non è un appannaggio elitario ma è alimento primario per essere autenticamente persone che vivono non solo di pane e affari ma di spirito di ricerca, di significati alti e ultimi.
La si è così tanto citata da averla resa banale, ma la celebre frase dell’Idiota di Dostoevskij sulla bellezza salvatrice del mondo ha un fondo indiscutibile di verità: a salvare questo mondo non basta l’economia, è assolutamente necessaria la bellezza, e l’economia deve ad essa inchinarsi, se vuole essa stessa avere un senso e un’efficacia sociale.
(articolo apparso sul settimanale diocesano “Il Resegone”)