«Dovrebbero farle un monumento». Un titolo che già spiega tutto. È quello della Lettera che l’Arcivescovo ha scritto agli operatori sanitari, per esprimere tutta la sua riconoscenza e ammirazione per chi, accanto ai malati, «è rimasto al proprio posto». Ai sentimenti con i quali un medico accoglie questa Lettera dà voce Alberto Cozzi, endocrinologo e presidente della Sezione di Milano dell’Associazione Medici Cattolici Italiani.
«Devo dire – nota, anzitutto – che il fatto di averla indirizzata agli operatori sanitari in senso lato apre a un impegno di condivisione necessario tra il medico e altre figure sanitarie, come si è visto chiaramente in questo tempo di pandemia. Lo specialista, per quanto competente, non è sufficiente: occorre un lavoro di squadra. Per questo l’elogio che l’Arcivescovo fa ai medici e agli operatori sanitari è sicuramente un incoraggiamento, ma vi scorgo anche una provocazione, detta con il tono delicato, ma allo stesso tempo pressante peculiare dell’Arcivescovo. È il richiamo a non perdere di vista l’umanità».
Infatti si legge: «Ci sono dei lavori che rivelano qualcosa di mirabile dell’essere umano». Concorda su questa frase?
Mi ci ritrovo assolutamente, perché l’Arcivescovo va al cuore dell’impegno dell’operatore sanitario. È come se sottolineasse uno sguardo nuovo sul nostro essere, riuscendo a farlo sempre in punta di piedi, ma con molto realismo, perché parla di grandezza, di fierezza della professione, ma cita anche i momenti difficili e i contrasti che pure esistono: l’arroganza, la meschinità, l’egoismo, la diffidenza. Questa Lettera non offre spazio alla retorica del medico, come è stata spesso portata avanti in questo periodo, ma indica la necessità di rifondare i presupposti fondamentali della presenza sanitaria: da una parte, lo spirito di collaborazione e, dall’altra, un impegno a tutto tondo verso l’uomo, non lontani dall’evoluzione scientifica.
Insomma, occorre «imparare le competenze» coniugandole con l’umanità?
Sì, l’esigenza delle competenze oggi è formidabilmente importante, quella del merito anche: quindi bisogna essere aperti all’evoluzione tecnologica, se vogliamo anche all’intelligenza artificiale, sempre più diffusa, a patto che l’algoritmo sia a favore dell’uomo e non calpesti la sua dignità. Non si tratta di ritrovare la figura del medico compassionevole o dell’operatore sanitario che fascia le piaghe, ma di vivere in profondità la professionalità con la relazione di cura.