La grande e secolare bellezza, tutta ambrosiana, della basilica di San Vittore al Corpo che si intreccia con i suoni, i colori, i linguaggi e le vesti tradizionali di tante parti del mondo. La fede che unisce nella preghiera all’unico Signore, pur nei diversi modi di celebrarlo, e che parla di una Chiesa dalle genti che è ormai realtà nella grande metropoli multietnica della Milano del terzo millennio.
È la solennità di Pentecoste, nella quale l’Arcivescovo presiede la Messa con le Comunità dei migranti per la Festa diocesana delle genti, in una basilica gremita di fedeli che animano, con grande vivacità, la celebrazione. Comunità filippine, dell’America Latina – come sempre numerosissime -, polacche, dell’Eritrea, dell’Ucraina (anche in questo caso giunta in massa), dello Sri Lanka, albanese e libanese, tutte accompagnate dai rispettivi cappellani. 20 i concelebranti, tra cui il parroco di “San Vittore”, don Vittorio De Paoli e il responsabile dell’Ufficio diocesano della Pastorale dei Migranti, don Alberto Vitali. È lui che rivolge il saluto di benvenuto, parlando di una Festa delle genti «ormai tradizionale», ma non nascondendo le difficoltà di un cammino, talvolta, complesso «dentro le stesse comunità ecclesiali».
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Il saluto
«Non si può ritenere che la convivenza fra quanti provengono da tradizioni culturali e religiose diverse avvenga in modo spontaneo, quasi che fosse una festa quotidiana esente da fatiche e incomprensioni. Per questo sentiamo il bisogno di unirci a lei, nostro Pastore, perché la Chiesa dalle genti non resti una bella aspirazione, ma diventi realtà mentre non pochi dei nostri Pesi versano in situazioni drammatiche, come l’Ucraina il cui martirio è sotto gli occhi tutti, ma anche l’Eritrea dove da decenni si sta consumando un conflitto fratricida completamente ignorato dalla comunità internazionale. Senza dimenticare le ingiustizie strutturali del sistema ecocida e omicida dominante», sottolinea don Vitali che è anche parroco della parrocchia personale dei Migranti a Milano.
«Ciò nonostante posso testimoniare che la forza della fede riesce a infondere nei migranti una speranza più forte di qualsiasi avversità, capace di tradursi in gioia. Perciò, delle 3 caratteristiche del volto di Chiesa indicate nella Proposta pastorale – unita libera e lieta -, quanto alla letizia ci sentiamo ben equipaggiati, sulle altre due stiamo ancora lavorando».
Chiarissimo, nelle parole del vescovo Mario, l’invito a costruire, ognuno con i propri carismi, la Chiesa dalle genti.
L’omelia
«Poiché oggi conta essere potenti e comandare, c’è sempre la tentazione di pensare di non valere niente», magari dicendo a se stessi – come suggerisce l’Arcivescovo – «io che vengo da un Paese povero e che è stato sempre comandato da altri, non ho nessun prestigio».
«Ma noi», aggiunge subito, «siamo qui a celebrare il dono dello Spirito che si esprime con una pluralità di doni. Ciascuno, come dice Paolo nella I Lettera ai Corinzi, ha ricevuto una manifestazione particolare dello Spirito che diventa preziosa perché contribuisce al bene di tutta la comunità. Nella Chiesa non contano le risorse, le capacità di esprimersi, ciò che conta per il mondo: nella Chiesa conta che ciascuno offra il suo dono. Siamo qui per rispondere alla domanda su quale sia la manifestazione particolare dello Spirito che è stata concessa a ciascuno, quali sia quella di cui il proprio popolo e cultura sono portatori, quale è il dono che dobbiamo offrire a questa città, alla Chiesa di Milano. Nessuno di noi può dire che non ha niente da dare agli altri. Noi siamo un corpo solo e un’anima sola».
Insomma, tutti insieme, «protagonisti nell’edificazione della Chiesa dalle genti che è il volto che la Chiesa di Milano è chiamata ad assumerne»
«Il mondo non sa vedere lo Spirito, dice il Vangelo di Giovanni, perché la mentalità mondana considera le cose secondo i propri criteri – quanti soldi hai, quante lingue parli, quanti titoli di studio hai -, vede gli aspetti esteriori, ha criteri meschini e ottusi, ma noi siamo qui a invocare il dono dello Spirito perché abbiamo la persuasione che lo Spirito trasfigura le nostre timidezze, paure, imbarazzi come è stato per i primi discepoli quella mattina di Pentecoste nel Cenacolo».
Da qui l’interrogativo rivolto a ognuno. «Qual è il volto che esprimeremo uscendo da questa celebrazione, vivendo quotidianamente le nostre gioie e tristezze?». La risposta viene appunto dalla Pentecoste che forma «uomini e donne che vivono in Dio».
«Dunque, cammineremo per le strade della città con questa persuasione: sono un figlio di Dio abbracciato da una comunione che non lascia mai. La grande grazia della Pentecoste non è nel prestigio di cui godiamo noi o il nostro Paese, ma è partecipare alla vita di Dio, testimoniare la speranza invincibile».
Una testimonianza – questa – che si fa, a conclusione dell’omelia, appello ai presenti e, idealmente, a tutti i migranti che vivono in Diocesi.
«In questo mondo occidentale che vive sotto il segno della morte, nella persuasione di essere destinato al nulla, noi chiediamo soccorso ai popoli della terra, ai popoli vivi, pieni di fiducia, capaci di generare figli e figlie, per dire che siamo figli di Dio e non temiamo la morte. Ciascuno di noi, ciascun popolo ha dei doni particolari e, dunque, noi chiediamo a ciascuno di voi e alle vostre comunità, di riconoscere i propri doni, di non sottovalutarsi mai, di riuscire a esprimere ciò che la storia del cristianesimo, nei secoli, ha creato in voi, nella vostra liturgia, nel vostro modo di sentirvi fratelli e sorelle. Nessuno trattenga per sé il proprio dono, nessuno abbia questa specie di complesso di inferiorità. Siamo qui a celebrare la Festa delle genti perché la Chiesa di Milano vuole essere Chiesa dalle genti. E non è un’impresa che va da sola, non basta abitare nella stessa città per sentirsi parte dell’unica Chiesa. Siamo chiamati a percorrere un cammino di fede intensa, di preghiera profonda, di umiltà sincera, di generosità grande. Chiamati a essere determinati nel mettere in comune i molti doni perché questa Chiesa di Milano sia la Chiesa dalle genti che lo Spirito di Dio sta costruendo giorno per giorno con il contributo di tutti».
La celebrazione
Un invito e un auspicio rispetto ai quali la celebrazione stessa pare già una risposta, nei momenti suggestivi dei canti con le sonorità tipiche dei singoli Paesi, nei gesti, nella preghiera dei fedeli a più voci che diviene commovente quando la comunità ucraina alza la sua invocazione «perché non lasciamo più che accadano orrendi genocidi, guerre civili, volenze e abusi che straziano gli uomini e distruggono il Creato». Così come nella delicata grazia della danza delle bambine srilankesi che arrivano fino all’altare maggiore indossando i loro coloratissimi costumi, per l’offertorio e nel canto finale mariano che coinvolge l’intera assemblea.
«Grazie perché siete venuti a portarci il mondo», sottolinea al termine don De Paoli, richiamando la figura di San Vittore, «venuto a Milano da terre lontane, straniero che qui ha trovato il martirio ed è diventato santo».