È successo qualcosa di grosso, nella notte del Natale di Gesù, perché fino al giorno prima ognuno se ne stava a casa sua. Ognuno al suo posto. Dio e l’uomo. L’uno nei cieli immensi e infiniti, l’altro sulla terra, ad arrabattarsi con il male, o il bene, di vivere. Certo, si parlavano i due: l’uno porgeva offerte e sacrifici e l’altro concedeva grazie e benedizioni. Di patti di alleanza ne avevano fatti molti: qualcuno durato tanto, qualche altro un po’ meno. Ma ognuno, comunque, stava al suo posto.
Finché è accaduto quel qualcosa che l’uomo non aveva messo in conto. Una sorta d’inaspettata migrazione: il Dio del cielo è venuto ad abitare sulla terra. Ha sconfinato e quella è stata la rotta migratoria più sorprendente che si potesse immaginare. Facendo così, però, da profugo è finito col nascere in viaggio, quasi per strada, o ci è mancato poco. Ma in quel modo Dio ha spostato irrimediabilmente un po’ più in là i confini della relazione tra lui e l’uomo. Niente sarebbe stato più come prima: il Dio straniero ha imparato il dialetto dei pescatori di Galilea e un po’ tutti gli altri dialetti del mondo e i pescatori di Galilea (e molti altri uomini) si sono fatti docili all’ascolto della sua Parola. Il Dio «clandestino» (etimologicamente significa «nascosto di giorno») nella notte ha mostrato il suo volto nel volto di un bambino dall’origine poco chiara.
Sconfinamenti da brividi: una frontiera spostata un po’ più in là per un nuovo senso alla vita e nuove logiche di relazione. Così l’uomo clandestinamente (nascosto in Cristo, questa volta) ha cominciato a fare un passo oltre il confine della morte per abitare l’eternità. Nascosto in Cristo ha messo piede oltre quella frontiera che ha sempre guardato da lontano, ma non ha mai varcato. Non c’è migrazione alcuna che non sposti un confine, grande o piccolo che sia: geografico, spirituale, relazionale, sociale o teologico. E quella terra, fazzoletto condiviso da tante impronte diverse, è quanto mai feconda.
Cos’è venuto a fare Dio tra noi? Chi è posseduto dal demonio non esita a rispondere: «Sei venuto a rovinarci» (Lc 4,34). In fondo non ha tutti i torti, perché in quel modo squassa gli equilibri di potere che anche il diavolo s’è ritagliato sulla terra. E quelle parole («sei venuto a rovinarci») tornano facili anche oggi sulla bocca di chi ha paura dell’extracomunitario e lo considera una minaccia. Il Dio straniero – e che straniero rimane, perché l’uomo non può comprenderlo e possederlo totalmente -, il Dio mistero inafferrabile si manifesta ed esce dalla sua clandestinità perché l’uomo sconfini oltre il limite della frontiera mortale. Il Dio, dunque, venuto da lontano in quella terra in cui avevamo la presunzione di essere padroni, almeno per usucapione di qualche millennio, è un Dio che non ci rovina, anzi, ci mostra che nello sconfinamento si ha un po’ tutti da guadagnare: nello stupore oltre la diffidenza e la paura, la frontiera diventa valico per la comunione e la salvezza.
Poi però occorre dare un nome al Dio migrante. È l’angelo a imporlo a Maria: «Lo chiamerai Gesù» (Lc 1,31). Un nome dei nostri, uno di quelli che tanti ebrei del tempo portano. Non perché così tu lo possa schedare, ma perché tu possa stabilire un legame con lui. E quell’atto, dare il nome, è la fine. La fine di una questione teologica e l’inizio di un incontro. Dare un nome nostro a Dio ha fatto di lui un Dio un po’ più vicino e un po’ meno straniero. Dare il nome a un uomo o a una donna, a bambini che hanno lasciato la loro terra per abitare la nostra, significa smettere di fare di loro una questione o un problema (la «questione dell’immigrazione», il «problema degli extracomunitari»…) per iniziare a guardarli negli occhi come persone e trovare nei loro volti e nelle loro parole una storia, un sogno, una ferita.
Si dà o si prende un nome, ancora oggi, e magari anche le impronte digitali. Quelle di Dio tracciano sulla sabbia una parola di misericordia per chi ha sbagliato e anela al perdono. Quelle di Dio toccano gli occhi del cieco e li aprono alla vista, la bocca del muto e la fanno parlare, le sue orecchie e le rendono capaci d’ascolto. Sono impronte di cura e solidarietà. E quando la forza del nome si fa mano di cura dell’uomo ferito si sciolgono i sospetti e si condividono brecce di luce.
Dalla migrazione di Dio sono passati più di duemila anni. Tutto finito? No, pare che quel Dio non abbia perso il vizio di sconfinare. Così continua a svelare il suo nome nel migrante che prega accanto a te in chiesa, sulla fila dietro, e fatica un po’ a pronunciare tutti quei kyrieleison. Continua a sconfinare nel richiedente asilo del Centro Sprar, che discretamente si lascia sfuggire qualche frammento sulle torture subite prima di giungere a sfidare l’incognita di quel mare nostrum che ormai è il mare dei morti. È un Dio migrante che ancora si prende cura di noi nello straniero custode delle nostre scale e delle nostre case. Si prende cura di noi nella straniera custode delicata e rispettosa dei nostri vecchi. Custodi, come gli angeli.
In fondo i nostri presepi non sono pieni di angeli voce di quel Dio, non proprio regolare, che migrando ha spostato un po’ più in là i confini del tempo, della vita e dell’amore?
(da «Il Segno», dicembre 2018)