«Credo che la presenza dell’Arcivescovo possa essere il segno di una speranza portata alle persone che qui vivono l’ultima stagione della loro vita». Così don Graziano Redaelli, cappellano dell’Istituto Piero Redaelli di Milano, riassume il significato della visita che monsignor Mario Delpini, con l’assessore comunale al Welfare Lamberto Bertolè, farà alla struttura geriatrica venerdì 13 settembre. L’Arcivescovo è stato invitato in occasione della festa patronale dell’istituto, dedicato alla Beata Maria Vergine Addolorata: nel corso della mattinata celebrerà la Messa nella cappella della struttura e si intratterrà con il personale e gli ospiti.
Per don Redaelli la presenza dell’Arcivescovo non è un semplice evento pubblico, ma «la visita del Pastore della Chiesa ambrosiana, di un fratello nella Fede». Un momento di conforto cristiano per gli oltre 500 ospiti della struttura. «La cura spirituale giova tantissimo perché è una vicinanza nella sofferenza e nella solitudine, in particolare quella interiore – spiega -. È una condizione molto personale per quanti vivono qui, dove in alcuni periodi il sentirsi soli si acuisce maggiormente». Un aiuto importante può quindi venire dalla vicinanza, «non necessariamente spirituale, ma di persone che si accorgono che esiste l’altro e cercano in qualche modo di entrare in relazione». Nelle sue Sette lettere per Milano lo stesso Arcivescovo scrive di non ignorare le tante solitudini della città, riscoprendo la «trama di relazioni che consentono di praticare la carità e di affrontare insieme le situazioni della vita, la missione dell’evangelizzazione, la preghiera condivisa, la testimonianza della presenza del Signore risorto», con l’invito a «guardare con simpatia chi abita vicino, riconoscere le invocazioni di aiuto, il bisogno di un sorriso amico».
Nel suo anno da cappellano, don Redaelli racconta che la vicinanza aiuta gli ospiti «a ripensare la propria vita e magari a fare i conti con dei nodi», oppure a richiamare «ricordi o esperienze positive che diano speranza e facciano vedere la propria vita come una semina» dalla quale cogliere i frutti. Così ripercorrere la propria esistenza e riflettere sul dopo diventa qualcosa in grado di unire tutti, credenti e non. Uno scambio di esperienze e racconti che coinvolge lo stesso Redaelli: «Quando sono arrivato mi sono sentito accolto non dentro una struttura, ma una comunità di persone. Gli incontri periodici con gli ospiti di un reparto, assieme a due suore che aiutano settimanalmente, sono molto stimolanti anche per me – sottolinea -. Traendo spunto dalla Bibbia si riflette sulla Fede, ma anche sul senso di quello che si vive e che si è vissuto. Questo mi aiuta a capire ancor di più quali potrebbero essere i bisogni di una persona verso la fine della vita e motiva di più la mia presenza, portandomi a chiedere per chi io sia qui».
Così, nel bisogno di ogni uomo di essere in relazione con gli altri, anche la celebrazione di una messa può trasformarsi in un momento di festa condivisa: «Abitare le relazioni è la sfida di tutti i giorni. Qui io e le persone della struttura condividiamo un tratto di strada insieme e lo facciamo guardandoci negli occhi» afferma don Redaelli. Un gesto semplice, ma di affetto autentico per non sentirsi soli. Così come Gesù non dimentica nessuno.