Don Giuseppe non ha deciso di andare a prendere i suoi ragazzi ai confini con l’Ucraina. Non ha fatto valutazioni. Semplicemente, spiega, «non potevo lasciarli là». Sul suo telefono arriva un primo messaggio alle 9 e 24 di venerdì (il secondo giorno dall’invasione russa): «noi stiamo partendo, perché sentiamo le bombe». Quindi un secondo: «siamo partiti». Il terzo alle 10: «Noi siamo partiti. Tu sei partito?». «Ovviamente non hanno pensato alla burocrazia» nota don Tedesco, che è parroco della chiesa di San Giuseppe, a Busto Arsizio. Eppure questi ragazzi, non ancora adolescenti, erano tornati da poco nel loro Paese. «Erano stati da noi fino al 16 gennaio, per loro l’oratorio è come una seconda casa», sottolinea il parroco. Attraverso l’associazione Noi con Voi un gruppo di ragazzi ucraini, in particolare della zona di Chernobyl, da diversi anni viene ospitata sia in estate che nelle vacanze di Natale dalle famiglie di Busto Arsizio, Samarate e dei comuni vicini. «Anch’io, con la mia famiglia, ho ospitato due fratelli. E quest’estate era bellissimo – racconta il parroco –, all’oratorio estivo erano in undici».
Don Giuseppe aveva messo in guardia i ‘suoi’ ragazzi: «forse non si può arrivare subito in Italia, bisogna passare la frontiera…», ma neanche lui ha atteso la burocrazia. Arrivati in Polonia, i sei ragazzi hanno dormito per due notti a casa di uno zio. «In realtà era un’unica stanza di 20 metri quadri, se fosse servito avrei affittato a mie spese un appartamento in attesa del trasferimento in Italia». L’ok della questura di Busto comunque è arrivato subito, proprio grazie ai documenti che erano già pronti, dopo l’ultimo soggiorno natalizio. E a Cracovia sul pullmino è salita anche una giovane mamma, con una bambina nata l’8 febbraio. Chissà cos’avranno pensato durante il viaggio. «Io ero preoccupato di non avere un colpo di sonno, taglia corto don Giuseppe. «Qui sanno che sono amati come se fossero nella loro famiglia, e sono contenti di non essere sotto le bombe. Questa è casa loro. Ma il loro cuore è rimasto con il loro papà (alcuni sono orfani di madre), coi loro nonni e con la sorella, che sono restati lì. E anche altri ragazzi che solitamente ospitiamo non sono riusciti a lasciare Kiev, per cui la mia è una gioia a metà», si emoziona don Giuseppe.
Da sacerdote a sacerdote, il padre di alcuni dei ragazzi arrivati in Italia è un pope ortodosso: «in una bellissima lettera ha chiesto le nostre “sante preghiere”, spiegando che loro rimangono lì per difendere la patria e le famiglie. Perché un prete non lascia la sua gente sotto le bombe», ribadisce don Tedesco. Che qui si sente come un padre adottivo, a cui questi ragazzi sono stati affidati. Ha dovuto accompagnare uno di loro dalla pediatra, dato che non si era ancora ripreso dal freddo di questi giorni, «ma è il minimo, dopo aver passato due notti all’addiaccio», commenta. Poi c’era da pensare agli accappatoi: a gennaio ne avevano portati a casa di nuovi, ma ovviamente hanno dovuto lasciarli là, in Ucraina. A quest’incombenza, per fortuna, ci ha pensato una mamma della parrocchia. Qui tutta la comunità li aspettava. E ci sono, fa sapere il parroco, famiglie che piangono sapendo che i bambini che hanno ospitato per cinque, sei, sette anni sono rimasti sotto le bombe. «Ma se a questi ragazzi chiedo se vogliono tornare in Ucraina rispondono di sì; perché lì c’è il papà, lì c’è la nonna», sottolinea don Giuseppe. Perché «qui sono venuti per stare bene, ma questo di fatto è sempre stato il luogo delle vacanze. Mentre un domani – ne è sicuro don Tedesco – saranno loro a ricostruire la nuova Ucraina».