Paolino, il biografo di sant’Ambrogio, narra che «dopo la sua morte, a stento cinque vescovi riuscivano a celebrare i battesimi che lui compiva da solo». Lo stesso si disse – forse solo riprendendo l’esempio di Ambrogio – per san Carlo Borromeo.
Era certamente l’espressione dell’ideale di vescovo che li animava. Sant’Ambrogio ripeteva che «secondo la volontà di Dio e il vincolo di natura dobbiamo esserci di reciproco aiuto, servirci a gara, mettere i nostri beni a disposizione di tutti e nessuno sia distolto da questo dovere, nemmeno dal timore di un pericolo ma sia convinto che tutte le cose, sia buone sia cattive, lo riguardano direttamente».
Gli fece eco san Carlo, quando, a un Cappuccino che gli raccomandava di riposare un poco, vedendolo tanto affaticato, rispose: «Per illuminare gli altri una candela deve consumarsi».
Il vescovo si sapeva chiamato a essere immagine del Signore Gesù, che diede tutto se stesso per i fratelli che amava e che conosceva uno per uno, come il pastore le pecore del suo gregge, tutti cercando, secondo le celebri parole di sant’Agostino: «Ascoltiamo insieme; insieme condiscepoli, nell’unica scuola, apprendiamo da Cristo, il solo maestro».
Proprio perché la cura dei fratelli non venisse mai meno, si affermarono con il tempo la figura del vicario generale e del vescovo coadiutore. Il primo, in particolare, quando i vescovi stavano a lungo lontani dalla Diocesi, spesso per assolvere ad altri impegni, richiesti dal Papa. Il secondo si lega al fatto che il vescovo rimaneva tale «sino alla morte», perché l’anello che portava simboleggiava il suo «legame d’amore» con la sua Chiesa, un amore sino alla morte, come quello di uno sposo. Ma quando per l’età e gli acciacchi la fatica del servizio episcopale si faceva onerosa, veniva nominato un coadiutore, che gli succedeva immediatamente alla morte. L’ideale era quello di non esporre mai la comunità a essere senza pastore.
In tempi tutto sommato recenti comparvero i vescovi ausiliari nel senso che oggi intendiamo. Fino al beato cardinale Schuster, per esempio, non ci sono e compaiono con l’arcivescovo Giovanni Battista Montini, che divenne poi il papa san Paolo VI. Forse gli erano congeniali, per la sua formazione romana, ove molti vescovi collaborano direttamente con il Papa, anzi solo dei vescovi sono a capo delle Congregazioni della Santa Sede e non a caso a Roma nella Preghiera eucaristica, si prega: «Ricordati del nostro vescovo e papa Francesco e di tutti i vescovi suoi collaboratori in Roma».
Montini, dunque, cominciò a volere accanto al vicario generale, anche dei vescovi collaboratori, che condividessero con lui e a suo nome alcuni aspetti della travolgente pastorale ambrosiana. Pensiamo al numero dei sacerdoti che egli trovò (2.229 diocesani più 1.457 religiosi), ai seminaristi (da 976 all’arrivo a 1.444 quando divenne papa), all’Azione cattolica (quasi 85.000 iscritti). Pensiamo agli istituti culturali e caritativi dei quali è ricca la nostra Diocesi, dall’Istituto superiore di studi religiosi di Gazzada a quello di Milano, alla Caritas.
Vediamo così monsignor Sergio Pignedoli, per pochi anni (1955-1960); monsignor Giovanni Colombo (1960), cui Montini affidò l’importante ambito della formazione del clero, e monsignor Luigi Oldani (1961), uno dei primi Vicari di zona, cui affidò la città di Milano.
I vescovi ausiliari erano figure nuove, in un certo senso, e lo si nota nelle parole sobrie loro riservate nel decreto del concilio Vaticano II, Christus Dominus: «Sono chiamati a partecipare alle sollecitudini del vescovo diocesano (che) devono sempre circondare di obbedienza e di rispetto, mentre egli, da parte sua, deve amarli come fratelli e stimarli» (numero 25).
Valgano le parole di Montini all’ordinazione episcopale di Giovani Colombo, che gli fu poi successore: «Fratello carissimo, che vieni vicino a me a portare la croce, la sentirai grande, bella, piena di fascino, struggente, attraente, ma la sentirai estremamente pesante. Coraggio, il Signore ci è vicino».