Cosa significa essere «voci di un noi plurale»? Come coniugare questa evidenza con il cammino del Sinodo minore «Chiesa dalle Genti»? A confrontarsi su questi argomenti, molte voci riunite dall’Università Cattolica, che intende così dare un proprio contributo al Sinodo stesso, con un convegno che, oltre a docenti ed esperti, si fa luogo di ascolto di esperienze artistiche, di mediazione culturale, di lavoro comune di base nella e sulla convivenza.
Monsignor Claudio Giuliodori, assistente generale dell’Ateneo, porta il suo saluto personale e quello del rettore Franco Anelli. In riferimento alla sinodalità della Chiesa universale – con l’assise dedicata ai giovani – e a quella della Chiesa ambrosiana con «Chiesa dalle Genti», ricorda «i tanti percorsi di scambio promossi dalla Cattolica a livello internazionale con il programma Erasmus e attraverso i corsi di italiano per stranieri». Quindi, l’Università vista «non solo come laboratorio di elaborazione didattica, ma quale spazio esperienziale, con una specifica attenzione agli spostamenti planetari delle genti». Anche Luigi Pati, preside della Facoltà di Scienze della Formazione, si sofferma sulle possibilità di sensibilizzazione giovanile riguardo al fenomeno dei flussi migratori: «Il tema del cambiamento implica una necessità di trasformazione senza nostalgie. La lettura del documento sinodale permette di aprire prospettive nel coniugare il cambiamento con ciò che possiamo oggi intraprendere a favore degli immigrati, considerati come portatori di collaborazione a livello di comunità sociale ed ecclesiale». Roberta Osculati, presidente della Commissione Periferie di Milano e consigliere comunale, aggiunge: «Sono qui per ribadire e confermare un’alleanza tra la Chiesa, il Comune e l’Università. Negli ultimi 25 anni, dal 2% di stranieri siamo passati al 19%. Chiaro che questo trend possa creare problemi, ma, senza stranieri, la città si fermerebbe: basti pensare ai cinesi che gestiscono i bar, alle badanti, agli egiziani che animano il commercio dell’ortofrutta». Evidente che la questione non sia solo legata ai valori funzionali della migrazione, ma alla funzione stessa degli immigrati nella comunità. «Il che significa essere munus, un dono gli uni per gli altri, mettendosi in gioco insieme».
L’intervento dell’Arcivescovo
Da ciò che, come dice, gli sta particolarmente a cuore, si avvia la riflessione dell’Arcivescovo. «Come guardiamo alla realtà? Se il nostro sguardo è troppo miope, se si ferma a una raccolta di dati e di strumenti quantitativi, anche le conseguenze operative rischiano di esssere velleitarie. La verità della realtà è raggiungibile solo se consideriamo la possibilità di conoscere lo sguardo di Dio sulla realtà medesima. Il tema di una lettura teologica della storia è un tema di orizzonte che salva dall’autoreferenzialità. Questa è una premessa indispensabile. Anche nel lavoro ordinario di chi fa ricerca, di chi deve gestire delle prassi e la vita pubblica, il fatto di censurare il Vangelo è stata una delle ragioni per cui la convivenza dei popoli ha perso il suo fondamento. Se rileggessimo alcune pagine dell’Apocalisse, faremmo un esercizio profetico per trarre ispirazioni per il presente».
Il richiamo è alla visione della moltitudine di popoli ed etnie che nessuno può contare e che canta la salvezza che viene da Dio e dall’Agnello: «Dio vede tutti gli uomini come convocati per cantare insieme la sua gloria. In una lettura teologica della storia, la fraternità è originaria, l’appartenenza viene prima, è al principio, non è il frutto di un impegno. Nessuno è padrone di niente, ma tutti siamo destinatari di una Grazia, la partecipazione alla vita di Dio». Quindi, si tratta di ragionare sul noi plurale, non con un appello alla buona volontà (che è precaria perché se, per esempio, cambia la leadership politica può mutare anche la sensibilità comune), ma tornando al fondamento teologico del vivere insieme.
Da qui, anche la ragione profonda – suggerisce Delpini – del Sinodo minore: «Nella Chiesa non ci sono stranieri, ma pellegrini, fratelli e sorelle. Il muro di separazione non è stato abbattuto dalla buona volontà, ma è un frutto di Cristo e del suo sacrificio. Noi riteniamo che la parola accoglienza impoverisca e sia riduttiva e pensiamo che sia discutibile anche il termine integrazione, che implica un’intenzione di omologazione per certi aspetti come la lingua, necessaria, ma che non significa divenire uguali». La parola del Sinodo, semmai, è il cambiamento: «Non esiste una Chiesa già costituita come una sorta di cittadella, esiste un popolo che percorre le strade della terra e assume una sua fisionomia camminando tra momenti di gloria e di spavento».
La Chiesa deve formarsi, dunque, dalle genti. Ma come? «Questo è, appunto, il lavoro del Sinodo». Il lavoro e il compito, per dirla con Milena Santerini, ordinario di Pedagogia generale e sociale e copromotrice del convegno con la pedagogista Marisa Musaio: «Un incontro che vorremmo dicesse della “capacità di sognare insieme” in una città non grigia… Non più stranieri, non più ospiti, ma fratelli e sorelle nella stessa comunità. Questo è il messaggio forte di un Sinodo che esprime la volontà di ricomposizione della comunità ecclesiale di Milano».
Voci di un noi plurale, appunto, «di persone che lavorano, studiano e sperano con noi. Voci di persone che hanno contribuito a far crescere Milano, la cui integrazione va avanti anche se finora abbiamo investito più sull’emergenza che sull’integrazione». «Eppure, nonostante questo messaggio chiaro del Sinodo riusciamo a dividerci. Sembra diffondersi l’insegnamento del disprezzo, la creazione di distanza e di separazione che vengono anche da chi ci governa, anche da alcune forze politiche, anche dalle Istituzioni, da chi dovrebbe creare coesione sociale e, invece, divide. Tutto questo non deve trovare spazio nella Chiesa che è casa e porto sicuro per tutti».