L’8 settembre, nel giorno d’inizio dell’Anno pastorale, si parlerà anche del Sinodo minore “Chiesa dalle Genti”, in un incontro di approfondimento e orientamento. Una scelta temporale significativa che monsignor Luca Bressan, vicario episcopale e presidente della Commissione di coordinamento del Sinodo stesso, spiega così. «Vogliamo legare il Sinodo al cammino della Chiesa ambrosiana. Tradizionalmente l’8 settembre è il momento in cui la Diocesi riprende vita. In tale contesto, come è evidente, il Sinodo ha un ruolo rilevante: per questo collocare nella mattina dell’8 settembre la convocazione dell’assemblea che poi, alla chiusura dei lavori il 3 novembre prossimo, sarà chiamata a discernere e a presentare un documento all’Arcivescovo, ha un valore simbolico, ma anche, potremmo dire, molto pratico e produttivo».
In che senso?
Perché con questa assise si intende aprire il grande momento di consultazione finale. Consegneremo a tutti i membri dell’Assemblea del 3 novembre il testo su cui, poi, saranno chiamati a lavorare da soli o in gruppi, ma sempre coinvolgendo il più possibile – com’è stato fatto finora -, il tessuto ecclesiale locale. I delegati si impegneranno a leggere la proposta delle Costituzioni che la Commissione di coordinamento sta ultimando, così che possano riflettere e proporre le loro osservazioni, potremmo chiamarli i loro emendamenti. Il 3 novembre si potranno votare tali emendamenti, così da arricchire, in tempi abbastanza brevi, un testo finale che davvero aiuti la Diocesi a capire come stiamo cambiando.
Come si articolerà l’appuntamento di sabato?
Anzitutto la convocazione, fissata in successione non solo temporale con il Pontificale solenne dell’8 settembre in Duomo presieduto dall’Arcivescovo, vuole essere un prolungamento di quella celebrazione. Vi sarà una presentazione da parte mia del testo, della sua struttura, della prospettiva e dell’intenzione su cui è giusto che i membri lavorino da qui al termine del Sinodo.
Qual è il punto cardine di questa prospettiva?
Sono tre i “fuochi”. Un primo legato alla forma concreta della Chiesa: il cambiamento chiede che le realtà locali, a partire dalla dimensione decanale, assumano sempre più la prospettiva del discernimento. Dunque, non siano semplicemente luoghi di esecuzione di progetti pensati altrove, ma diventino un vero contesto ecclesiale che legge come il popolo che Dio raccoglie, stia cambiando fisionomia. Sarebbe bello, per esempio, andare verso una forma più stabile dei Decanati affinché soprattutto i Consigli pastorali decanali divengano maggiormente inclusivi e capaci di coinvolgere le comunità immigrate e la Vita consacrata, valorizzando in Diocesi il loro ruolo di laboratorio e di osservatorio privilegiato dei mutamenti. La seconda prospettiva è più culturale. Il cambiamento chiede che impariamo a ridire gli elementi fondamentali della nostra fede, in un contesto sociale in rapida trasformazione come tanti segnali anche politici, stanno indicando. In un momento in cui molti sono smarriti, l’impressione è di essere soli e questo genera sofferenza. Noi dobbiamo, nei fatti, essere promotori di una cultura che aiuti a percepire il legame che ci unisce tutti come persone. Il terzo aspetto è più immediatamente pastorale: non si tratta d’inventare nuove iniziative e azioni, ma di rileggere come i cattolici che vengono da altre culture e da altri Paesi siano capaci d’innervare e, quindi, di trasformare la vita della nostra Chiesa. Basti pensare ai percorsi d’iniziazione e di educazione alla fede, alla pastorale familiare, all’attenzione per gli ultimi, alla cultura.