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Cent’anni da scout PUPI AVATI: «QUANDO LASCIAI GLI SCOUT PER IL JAZZ»

15 Ottobre 2007

Il celebre regista bolognese ricorda il valore educativo
e formativo della sua esperienza, da capo dei lupetti
a rover. «Poi conobbi il jazz e dovetti fare una scelta…»

di Mauro Colombo

Ha regalato al cinema italiano immagini ricche di poesia: storie oscillanti fra i sogni della gioventù e il disincanto della maturità, sospese tra allegria e nostalgia, permeate di stile ed eleganza. Ed e’ stato uno scout. Parliamo di Pupi Avati, il regista bolognese di film come Una gita scolastica, Festa di laurea, Storia di ragazzi e ragazze, Regalo di Natale, Il cuore altrove, La rivincita di Natale, Ma quando arrivano le ragazze e La seconda notte di nozze.

«Sono entrato tra i “lupetti” a 9 anni, nel 1947, nel reparto “Bologna 16” costituitosi attorno alla parrocchia di San Giuseppe dei Padri Cappuccini – ricorda Avati -. La cultura cattolica della mia famiglia ebbe la sua influenza, ma come altri ragazzini fui affascinato soprattutto dall’immagine degli scout con il cappellone che andavano a fare campeggi».

Che ricordi ha di quegli anni?
Eravamo nell’immediato dopoguerra. Dotazione e attrezzature erano molto approssimative e basate in gran parte su residuati bellici: tende e zaini venivano reperiti sulle bancarelle, al posto dei sacchi a pelo c’erano le coperte cucite dalle nostre mamme. Feci tutta la trafila, da capo dei “lupetti” a rover. Finché non conobbi la musica jazz…

E che accadde?
Il jazz era considerato una musica “trasgressiva”. Per questo fui sottoposto a una sorta di “corte marziale” nella quale i miei compagni – poi rimasti tutti fraterni amici, intendiamoci… – mi posero di fronte a una scelta: o il jazz o lo scoutismo. E io, con grande disappunto di mia madre, scelsi il jazz… Lo scout, ormai, l’avevo già fatto, e i benefici di quell’esperienza erano tanto radicati in me che li avverto ancora oggi, a 69 anni.

Un’avventura che le è rimasta particolarmente impressa?
Il primo campeggio invernale, a Monte Acuto, lo raggiungemmo a bordo del cellulare del carcere bolognese di San Giovanni in Monte, con una cabina senza finestrini, angusta, fetida: la strada era tutta curve, arrivammo immersi nel nostro vomito… E poi il cosiddetto “viaggio di prima classe”, nel quale eravamo messi alla prova attraverso una trasferta solitaria che comprendeva anche una notte in tenda: il mio piccolo accampamento era a ridosso di un cimitero, fu una nottata angosciante… Ma più che di un’avventura, parlerei del radicamento di un’idea.

In che senso?
Accadde un pomeriggio, durante un ritiro spirituale all’Abbazia di Monteveglio. Il nostro capo, Giovanni Evangelisti (poi tra i fondatori de Il Mulino), ci parlò di come avremmo dovuto “comunicare” noi stessi agli altri. Parole che segnarono profondamente la mia vita, che fecero luce su quello che dovrebbe essere il traguardo di ogni essere umano: riuscire a dire chi è attraverso quello che fa.

In questo senso lo scoutismo ha contribuito alla sua formazione umana?
Lo scoutismo non era solo fare campeggi. Mi ha insegnato a vivere con gli altri, a condividere sogni e progetti con altre persone. Che è poi quanto ho trasferito nelle mie esperienze professionali, dove il mio gruppo di lavoro è sempre stato come una squadriglia…

Anche nel cinema?
Certo. La mia troupe ècome un reparto, dove ognuno ha rispetto della dignità dell’altro e dove si fa in modo che nessuno lavori in modo anonimo o impersonale, ma che tutti vivano quel determinato progetto sentendolo proprio.

Ha mai parlato di scout nei suoi film?
In realtà no, anche se molti anni fa proposi alla Rai una serie televisiva che avrebbe dovuto intitolarsi appunto Scout. Non venne presa in considerazione e ancora oggi non ne comprendo le ragioni: fu un peccato, perché sarebbe stato un racconto rivolto ai giovani, anche divertente, senza inutili nostalgie.

Ritiene quello degli scout un percorso educativo valido ancora oggi?
Assolutamente sì, ma con una precisazione. Recentemente ho partecipato a Bologna a un’iniziativa celebrativa del centenario e ho incontrato i capi di oggi. Mi sono riconosciuto in parte, ma non totalmente: non solo perché il “mio” scoutismo viveva a ridosso delle parrocchie, era essenzialmente cattolico e aveva una forte base spirituale; ma anche perché mi sembra che col passare degli anni lo scoutismo si sia come omologato, adeguato alle mode. Noi eravamo forse più ingenui, più semplici, ma anche più essenziali e “alternativi”, e anche gli scherni e la derisione di cui talvolta eravamo oggetto hanno contribuito a formare una forte identità personale.