Una città-simbolo che racchiude in sé, in maniera quasi paradigmatica, il nesso complesso che lega, oggi sempre di più, problematiche ambientali e lavorative. Proprio a Taranto, infatti, si svolgerà la 49ª Settimana Sociale dei Cattolici italiani, che si propone di orientare il «cambiamento di epoca», per usare l’espressione ormai famosa di papa Francesco. Dal 21 al 24 ottobre 2021 la città salentina sarà sede dell’assise che rifletterà sul tema «Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro e futuro. #Tuttoèconnesso». Un titolo che immediatamente richiama il contesto dell’enciclica di papa Francesco, Laudato si’, con la sua ecologia integrale della persona, cui si aggiunge quello, più specificatamente dedicato alla fratellanza universale, di Fratelli tutti. Senza, naturalmente, dimenticare i tempi segnati dalla pandemia e i cambiamenti che ne verranno. Insomma, una scelta particolare e mirata, che indica un’attenzione voluta per il rapporto tra mondo del lavoro, ambiente e sostenibilità. Su questi temi ha aperto la sua riflessione l’arcivescovo, mons. Mario Delpini, nella Lettera per il tempo dopo Pentecoste. Sono dunque argomenti al centro dell’attenzione della comunità ecclesiale diocesana e nazionale. Li approfondiamo con don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale per i Problemi sociali e il lavoro della Conferenza episcopale italiana.
Perché Taranto?
Taranto, nel nostro Paese, credo che evidenzi due elementi a livello simbolico: da una parte, rappresentando un modello di sviluppo ormai superato, ossia – come insegna la Laudato si’ – quello che contrappone salute e ambiente, dimostra che questo stesso modello non serve e si ritorce, anzi, contro l’uomo e la Creazione. Quindi, superare questa logica in nome di un nuovo paradigma che sappia tenere insieme l’uomo e l’ambiente, è un primo elemento. Taranto ci richiama, con la sua stessa presenza e storia dell’Ilva, la necessità di una conversione ecologica oggi necessaria. D’altro canto, però, Taranto è anche periferia, è Mezzogiorno. In questo momento in cui si sta ripartendo e riprogettando dopo la pandemia, attraverso tante iniziative e provvedimenti, guardare alle periferie come laboratorio di ripresa e di resilienza ci sembra molto bello e sicuramente importante. Che la Chiesa italiana tenga il suo primo evento in presenza, dopo la pandemia, a Taranto è un segno di fiducia, speranza e di volontà di seminare il “nuovo” dentro la storia e nel nostro Paese.
Un segno, certo, ma anche una sfida per i cattolici italiani. Sappiamo che, nella città del polo siderurgico, le proteste sono spesso molto significative per quanto attiene naturalmente alla situazione dell’Ilva, ma coinvolgendo anche l’intero sistema…
La sfida da raccogliere mi pare soprattutto quella di dire – come Chiesa italiana -, quali siano le nostre scelte, come vogliamo vivere e fare nostro il messaggio della Laudato si’. Un’enciclica che davvero ci propone conversioni radicali, anzitutto a partire dal tema del lavoro, del rapporto tra ambiente e territorio e della valorizzazione, proprio attraverso il lavoro, dei nostri territori. E tutto questo sapendo gustare e assaporare la bellezza del dono di Dio che ci è offerto, invece che maledire la condizione di malattia, di inquinamento e di degrado. La vera sfida, mi pare, che sia qui, nel riconoscimento di tali dinamiche di discernimento.
Anche perché nella mentalità diffusa e nell’informazione si tende a contrapporre lavoro e ambiente. Rispetto a chi dice: «o salviamo i posti di lavoro, o stoppiamo gli impianti e salvaguardiamo la salute», ci può essere una “terza via”, quella di una sostenibilità di entrambe le condizioni, così necessarie per la vita e la dignità umane?
Sì. Non sarà più possibile, in futuro, immaginare una condizione come quella che hanno sofferto e stanno soffrendo le persone, perché attraverso le tecnologie, attraverso la ricerca, un modello diverso di investimenti sui territori per quanto riguarda l’occupazione, è possibile immaginare una “terza via”. Coniugare, da una parte, l’esigenza di offrire legittimamente un lavoro dignitoso alle persone e, dall’altra, che l’impatto di quel lavoro non sia devastante, mettendo a rischio la vita e la salute.