«Non esiste più il partito unico dei cattolici, quindi, la dispersione è un dato di fatto storico. Ma, forse, dovremmo chiederci cosa ci unisce. Su cosa siamo uniti? Se dobbiamo ragionare del fine vita, dell’immigrazione, della giustizia, dei giovani, dei temi di sensibile impatto etico, possiamo essere divisi?». A chiederlo agli amministratori locali e ai molti impegnati in ambito sociale e politico della Zona pastorale II, riuniti presso Villa Cagnola a Gazzada di Schianno, è stato l’Arcivescovo, durante l’incontro dal titolo «E gli altri?», che ha preso il via dal Discorso alla Città 2022 (vedi qui lo speciale): intervento centrale affidato all’Arcivescovo, cui erano accanto il Vicario episcopale di Zona, monsignor Giuseppe Vegezzi, e monsignor Eros Monti, direttore dell’Istituto Superiore di Studi Religiosi Paolo VI e iniziatore, 6 anni fa, della Scuola sociopolitica con sede a Villa Cagnola.
L’inquietudine e la speranza
Dai richiami all’inquietudine, ma soprattutto al realismo della speranza, presenti nel Discorso, sono partiti i due interventi iniziali, di Guido Bonoldi, medico in pensione, da due anni consigliere comunale di Varese con delega alla sanità, e di Marco Cavallin, sindaco di Induno Olona dal 2014. È quest’ultimo che dice: «A volte sei considerato un politico da guardare con sospetto, e nei casi più negativi sei addirittura da fronteggiare e contrastare solo per ragioni partitiche, anche se magari non sei nemmeno impegnato in un partito. Quanti di noi vivono questa solitudine…».
Una solitudine che torna anche nel contributo di Claudia Osculati, geriatra, responsabile di Ac per la Zona di Varese, che sottolinea la felice esperienza realizzatasi sul territorio, con la sinergia di movimenti, gruppi e associazioni, che ha portato a promuovere eventi come la marcia della pace organizzata a Varese in gennaio. Domanda Osculati: «Come tornare a dare una valenza positiva alla politica? Come abitare l’inquietudine che viene anche dalla dispersione? Cosa significa oggi per i cattolici ritrovare unità nel fare politica?». Interrogativi complessi, come li definisce l’Arcivescovo, avviando la sua articolata riflessione.
L’elogio del territorio
«Sono qui non con la presunzione di avere risposte, ma con il desiderio di ascoltare condividendo. Vorrei sottolineare l’elogio che ho fatto dell’inquietudine, ma anche dell’amministratore onesto che avverte la tensione della solitudine, che tiene viva la cura per il bene comune con il senso di una solidarietà capillare, anche se è pressato quotidianamente dalle pretese del bene particolare; che constata la complessità delle problematiche e l’inadeguatezza delle risorse. Merita che io dica il mio apprezzamento esprimendo un elogio che deve coinvolgere tutti perché venga superata, da parte dei cittadini, la sindrome del “cliente” oggi fin troppo diffusa».
«Vorrei fare l’elogio anche del nostro territorio perché più lo conosco e più sono ammirato da quante forme di volontariato e di associazionismo esistono e per quello che la gente fa per gli anziani, i malati, i doposcuola, gli oratori feriali, per le attività rivolte agli stranieri. Forse dovrebbe esservi una maggiore concertazione di tutte le attenzioni che, cogliendo la bontà del tessuto sociale e di un’alleanza che rispetta ruoli, responsabilità, matrici diverse, semina la persuasione della cura comune per il bene comune».
Un’alleanza contro gli interessi particolari
Alleanza, questa, per l’Arcivescovo più che mai necessaria quando «il più terribile dei nostri nemici è un individualismo che induce anche la politica ad accondiscendere a visioni particolari e dove sembra che parlare di diritti, significhi essere autorizzati a fare quello che si vuole». Chiarissimo il monito: «A me pare che questa civiltà europea voglia suicidarsi, finire, se tutta la sua preoccupazione è il diritto a creare le condizioni perché non vi siano più bambini o per eliminare la vita quando è troppo costosa. Noi dobbiamo, invece, riconoscere e testimoniare che c’è gente che ascolta i gemiti di altra gente, che cerca di rispondere e dà una mano».
Poi, la presenza dei cristiani come cittadini di questa Repubblica e di questa Europa. Il riferimento simbolico è ad alcuni generi letterari della Bibbia. Quali, in primis, «i Libri escatologici, con la loro visione estrema, come nell’Apocalisse di Giovanni, che relativizza la storia, ma che, insieme, dice che Dio compie comunque la sua opera di salvezza, alimentando così non il disimpegno, ma una fiducia indicibile». È appunto questo che manca oggi per l’Arcivescovo che, infatti, sottolinea: «Noi dobbiamo lavorare per sentirci popolo alleato di Dio, con una fiducia non basata sul calcolo delle probabilità o sui nostri bilanci, ma sul Signore che attraversa il dramma in cui viviamo. A questo dobbiamo attingere con fiducia, anche se le cattive notizie e i media ci assediano». E, ancora, il genere biblico della denuncia profetica gridata «con la passione di non far passare sotto silenzio il male quando è contro la persona, il bene comune, Dio. Anche noi, da cristiani, dobbiamo dire che su un certo modo di impostare l’economia e la sanità, per esempio, non siamo d’accordo».
Infine, la via sapienziale «di chi si ingegna a raccogliere tutto il bene possibile per percorrere strade praticabili». Sono queste «tre spiritualità che dovrebbero trovare il modo di combinarsi in comunità cristiane che, talvolta, paiono più inclini a sopravvivere senza proposte», scandisce monsignor Delpini, avanzando qualche spunto per vivere in concreto, anche nella cosa pubblica, tali atteggiamenti.
Motivare la fiducia e promuovere l’amicizia
«Occorre, anzitutto, motivare la fiducia. Se noi adulti, parlando del nostro impegno, facciamo solo un elenco di problemi e di frustrazioni, come possiamo rendere desiderabile per i giovani diventare genitori, sindaci, insegnanti? Credo che la prima cosa da fare di fronte all’emergenza educativa sia dare speranza e buone ragioni per divenire adulti».
Un ragionamento che vale, naturalmente, anche per la disaffezione politica: «Bisogna rendere facile fare il bene nel metro quadro che abbiamo a disposizione. Ai giovani, insieme agli ideali, occorre indicare l’importanza del gesto minimo e praticabile. Nell’impegno sociopolitico bisogna mostrare che è possibile fare qualcosa anche di piccolo, come pulire il ciglio della strada o la riva del lago, e che questo serve a edificare il bene comune».
«Terzo, promuovere l’amicizia che è determinante per fare il bene se crescono rapporti di stima reciproca. Se un gruppo di amici si mette insieme, si può cambiare la storia di un paese», magari impegnandosi anche in politica, suggerisce l’Arcivescovo che osserva come «la fede che non può mai essere un’intimità individuale, ma sia, per definizione, una condivisione».
L’unità dei cattolici
Due le immagini, ancora tratte dalla Scrittura, che delineano, oggi, una possibilità unitaria – anche se non partitica – dei laici cattolici «la cui presenza è stata sempre importante».
«Come il popolo d’Israele, convocato attorno a Mosè che sale sul Sinai per discenderne con le Tavole della legge, dovremmo essere uniti perché cerchiamo il monte di Dio sentendo come doveroso il riferimento alla sua legge e a valori su cui occorre essere d’accordo. E, oltre al monte di Dio, serve la casa del Siracide, uomo sapiente che raccoglieva la sapienza dei popoli. La casa del Siracide è quella dove si cercano regole di comportamento che siano frutto del buon senso, della pazienza, del compromesso, dell’idealismo. Abbiamo i comandamenti, la Dottrina sociale della Chiesa, ma occorre anche l’elaborazione di buone leggi fuori dalle contrapposizioni ideologiche».
Dopo altri interventi tra cui quelli del senatore Alessandro Alfieri, del prefetto di Varese Salvatore Rosario Pasquariello, di alcuni sindaci, di rappresenti di associazioni e di giovani della Scuola sociopolitica, il pensiero dell’Arcivescovo torna a prospettive molto concrete: «Bisognerebbe che i sindaci di un territorio si coordinassero per individuare insieme una priorità sulla quale investire le attenzioni delle loro amministrazioni comunali, per esempio, l’emergenza educativa. Ciò che ci deve convocare deve essere un tema, un problema che riguarda il bene comune, per confrontare idee e proporre percorsi. Rappresentando tutti i cittadini, i sindaci possono convocare il parroco, le autorità di sicurezza e altri: mi piacerebbe vedere dei laboratori sul territorio che facciano rete tra diverse realtà. E questo per non trasformare l’inquietudine in un’irrequietezza inconcludente. Auguro che incontri come questo possano essere replicati».