Saranno celebrati lunedì 30 maggio alle 10.30 nella chiesa parrocchiale di Sotto il Monte i funerali del cardinale Loris Capovilla. Il cardinale Angelo Scola, Arcivescovo di Milano e Metropolita della Lombardia, lo ha ricordato con queste parole: «“Poco tempo mi separa dal redde rationem e io devo ridurre tutto ai termini più semplici. […] L’angelo della morte mi sta appresso da sempre; e non è uno scheletro con la falce in mano; è un raggio di luce che squarcia le tenebre”. Sono parole che S. Em. Loris Capovilla pronunciò come ringraziamento rivolto al Card. Angelo Sodano inviato a Sotto il Monte Giovanni XXIII come latore della berretta cardinalizia da parte di Papa Francesco. Esse bastano per esprimere, nello stesso tempo, il cordoglio di noi da cui si diparte e la gratitudine a Dio per averci donato la figura di questo grande “patriarca”. Prima da Patriarca di Venezia e poi da Arcivescovo metropolita di Milano, ho avuto il dono di incontrare don Loris e di intrattenere un epistolario con lui. Egli non ha cessato di alimentarci, aiutandoci ad approfondire la figura del “Papa buono”, soprattutto attraverso la saggezza della Parola di Dio e dei Padri della Chiesa, così pure scrutando i nuovi segni dei tempi. A nome dei vescovi della Conferenza Episcopale Lombarda e mio personale affido don Loris alle braccia misericordiose del Padre che è nei cieli, mentre tutti noi ci impegniamo a trafficare la preziosa eredità che egli ci lascia». La salma verrà poi tumulata, secondo quanto da lui desiderato, presso l’antica abbazia di Fontanella di Sotto il Monte, vicino all’amico padre David Maria Turoldo. Lo ricordiamo attraverso uno scritto di Marco Roncalli, pubblicato da Il Segno in occasione del suo centenario.
Ha spiazzato quasi tutti e preferito legare il ricordo della sua nascita (14 ottobre 1915) a un’omelia inedita tenuta da don Angelo Giuseppe Roncalli il 15 settembre 1915, quando il futuro Giovanni XXIII – chiamato alle armi da pochi mesi – prestava servizio in Sanità presso gli ospedali bergamaschi, ma accettava anche frequenti inviti per predicazioni e conferenze, continuando a scrivere la biografia del vescovo che per dieci anni era stato la sua stella polare: Giacomo Maria Radini Tedeschi.
«Il centenario di questo vostro pensiero mi invita a riflettere sul fatto che, dopo un mese esatto, sono nato io, e non occorre che ve ne parli, giacché conoscete tutto dei miei genitori e di ciò che ha accompagnato il non facile cammino della mia vita», scrive dunque il cardinale Loris Francesco Capovilla, in una Lettera al Venerato e Santo Papa Giovanni: uno di quei “pieghevoli” che più volte ha annunciato come «l’ultimo», mentre pare siano stati buoni profeti Mikhail Gorbaciov (che cinque anni fa gli scriveva: «Il suo potenziale creativo è ben lungi dall’essere esaurito. E noi aspettiamo da lei nuove edizioni di testi. Le auguro buona salute…»), o il cardinale Carlo Maria Martini (che nello stesso periodo, il 28 maggio 2011, a Gallarate gli diceva: «Dio le conceda lunga vita perché continui a parlarci di papa Giovanni, della decisione di convocare il Concilio…»).
«Arrivato a cent’anni non ho avventure strepitose da raccontare, tranne l’incontro con voi, che siete stato l’ispiratore del mio servizio sacerdotale a Venezia, in Vaticano, in Abruzzo, nelle Marche e a Bergamo. Di nulla mi vanto, non mi sento creditore verso alcuno, sono in debito invece con voi, con i miei amati genitori Letizia e Rodolfo e mia sorella Lia con suo marito Carlo…», così continua il porporato centenario rivolgendosi al Papa di cui è stato contubernale. È l’unico passaggio autobiografico di questo testo che associa i suoi cento anni a quelli della prima guerra mondiale – «in questo ansioso momento in cui l’umanità è invitata a riflettere sui problemi gravi che toccano il genere umano, in luce di verità e giustizia, di amore e libertà» -, ma sottolineando soprattutto di quella lontana omelia roncalliana – pronunciata in una Bergamo allora «piccola oasi a servizio dei soldati feriti o malati qui ospiti di una popolazione buona e accogliente» – la “cifra” di «un pensiero e di un modo di operare», abbozzata «a indirizzo di buon lavoro e testimonianza per uomini e donne di buona volontà».
Nato a Pontelongo (Padova), rimasto orfano del padre a sette anni, Capovilla venne ordinato sacerdote il 23 maggio 1940. Di lì a poco l’entrata in guerra dell’Italia. Monsignor Ettore Bressan, rettore del Seminario, volle fargli proseguire gli studi. Nel frattempo gli vennero affidati diversi impegni: coadiutore in parrocchia a San Zaccaria, catechista, cerimoniere capitolare a San Marco, cappellano dell’Onarmo a Porto Marghera e del carcere minorile. Destinato dall’Ordinariato militare all’Armir, il corpo di spedizione in Russia, all’ospedale militare di Mantova fu ritenuto inadatto e inviato all’aeroporto di Parma per l’assistenza religiosa agli avieri. E qui lo colse l’armistizio del 1943 (è il periodo in cui strappò ai tedeschi alcuni giovani destinati all’internamento, facendoli passare come suoi collaboratori). Ritornato a Venezia a dicembre, pagò lo scotto del servizio con tre anni di malattia. Per tenerlo occupato lo fecero cappellano dell’ospedale per gli infettivi a Santa Maria delle Grazie. Poi cominciò a lavorare nel mondo dei mass media: nel 1949 la direzione della Voce di San Marco, poi la pagina locale dell’Avvenire d’Italia e i commenti del Vangelo alla Rai (trascritti recentemente nel libro Predicate il Vangelo a ogni creatura, a cura di Ivan Bastoni, edito da Corponove).
Subito dopo l’arrivo di Roncalli in Laguna (15 marzo 1953), il neopatriarca (che l’aveva conosciuto tre anni prima alle celebrazioni veneziane del fondatore dei Mechitaristi Armeni e rivisto a Parigi prima dell’ingresso in diocesi), lo volle con sé. «Senta…, questo don Loris… potrebbe darmi una mano ed entrare nella famiglia patriarcale?», così Roncalli al vicario Erminio Macacek. E quello: «Eminenza, è un buon prete, bravo, non gode però di buona salute e avrà vita breve». Risposta del patriarca: «Beh, se non ha salute verrà con me e morirà con me». Invece, dopo aver servito il Patriarca e il Papa con la stessa fedeltà, gli è sopravvissuto per più di cinquant’anni: raccogliendone e distribuendone l’eredità, facendone conoscere gli scritti (dal Giornale dell’anima e i Diari a preziosi epistolari), indicando l’insegnamento di Giovanni XXIII e del Concilio come bussola per il nostro tempo. E questo con ancora maggior vigore nelle sue lettere pastorali, quando nel 1967 si ritrovò vescovo a 52 anni (con Textus Edizioni è uscito da pochi giorni un rigoroso saggio di Enrico Galavotti dal titolo Il pane e la pace. L’episcopato di Loris Francesco Capovilla in terra d’Abruzzo), e successivamente quando, lasciata l’arcidiocesi di Chieti-Vasto, divenne dal 1971 «il vescovo dei pellegrini» alla Delegazione pontificia di Loreto, cui ha fatto seguito, nel 1989, il definitivo approdo a Sotto il Monte.
Qui, stabilitosi a Ca’ Maitino, nella casa-museo già residenza di Roncalli durante i suoi soggiorni estivi, aiutato dalle Suore Poverelle (come dimenticare la grandissima suor Primarosa, mancata pochi anni fa?) ha continuato a essere «l’evangelista di papa Giovanni» (per usare una definizione di monsignor Andrea Spada): mai smettendo di studiare le carte dell’archivio da lui organizzato e donato alla Fondazione Papa Giovanni XXIII di Bergamo, e lasciando aperta la sua porta a tutti (studiosi, devoti, pellegrini…).
Poi, nel 2013, papa Francesco l’ha creato cardinale, riservandogli attenzioni cui non era abituato (dalla telefonata agli auguri anche per l’onomastico il 10 agosto scorso). Pur non avendolo mai incontrato di persona, più volte Capovilla ha confidato di sentire il Pontefice molto vicino: nelle parole e nei gesti, nell’amore per i poveri e nella preghiera. E molti sanno quanto lo abbia fin qui seguito continuamente, sul piccolo schermo e sui media. L’immagine di don Loris e sempre, accanto a lui, il breviario, la Bibbia e i giornali, è proprio quella offerta da Karl Barth, a riaffermare che la Parola di Dio e la vita di tutti i giorni si illuminano a vicenda. E offrono motivi di ottimismo cristiano. Pian piano la Chiesa continua il suo cammino. Tempo fa – giusto per fare un esempio eloquente – don Loris diceva: «Quando ero giovane, a Venezia, magari incrociavo l’Archimandrita greco-ortodosso, quello della chiesa di San Giorgio dei Greci, un uomo degnissimo… Ma nemmeno un cenno di saluto reciproco… I preti anziani parlavano ancora di scismatici… Invece sono vissuto a lungo non solo per vivere il Concilio, ma per accogliere qui in casa, alla mia età, il patriarca Bartolomeo di Costantinopoli, che è venuto a trovarmi… Eh… un po’ di strada se n’è fatta…».