Papa Francesco è tornato a parlare di lavoro, sabato 27 maggio nella sua visita pastorale a Genova, con una riflessione incentrata sulla dimensione dignitaria del lavoro. Punto di partenza dell’analisi del Pontefice, proposta nel suo discorso allo Stabilimento Ilva, sembrerebbe essere la suggestione secondo cui, in un contesto sempre più segnato dall’interdipendenza delle economie, dalla frammentazione dei processi produttivi e dall’evoluzione tecnologica, la nuova conflittualità che caratterizza il mondo del lavoro, più che il frutto della tradizionale contrapposizione tra capitale e lavoro, parrebbe essere più efficacemente riconducibile alla contrapposizione tra chi promuove la dignità del lavoro e chi invece “specula” su di esso.
Per tale ragione, secondo Francesco, la buona economia richiede innanzitutto buoni imprenditori. Cioè, uomini capaci di interrogarsi continuamente su ciò che è bene e ciò che è male, perseguendo il bene dell’impresa attingendo a valori forti ispirati alla verità sull’uomo. Capaci, nello stesso tempo, di costruire relazioni di qualità con tutti coloro che a vario titolo entrano in relazione con l’impresa, garantendo un equilibrio dinamico tra esigenze economiche e istanze umanistiche, guardando oltre, non limitandosi al breve periodo, ma esplicando intelligenza e creatività imprenditoriale. Una ricerca di equilibrio che deve sfociare in una cultura d’impresa capace di coniugare la necessaria disciplina frutto delle regole interne all’organizzazione con la promozione di un’iniziativa diffusa, capace di generare quelle innovazioni di cui qualsiasi organizzazione ha bisogno per fiorire e mantenersi vitale.
All’opposto del buon imprenditore c’è, ovviamente, il cattivo imprenditore. Il “mercenario”, lo “speculatore” secondo la metafora usata da Francesco. Ciò che segna il confine tra questi due diversi modi di interpretare l’essere imprenditore è il senso che essi danno a quello che fanno e agli stessi doni che hanno ricevuto. Se il paradigma del buon imprenditore si basa sulla logica del servizio; quello dello “speculatore” si basa invece su quella del servirsi di tutto e tutti, che finisce per negare quella verità secondo cui il lavoro deve essere, nello stesso tempo, un bene utile all’uomo e un bene degno dell’uomo, chiamato ad esprimere ed accrescere la sua stessa dignità.
Lo smarrimento del significato autentico del lavoro si ripercuote anche nell’impresa, con la conseguenza che quelli che dovrebbero essere i mezzi (la tecnica, la finanza, il profitto) diventano i fini del lavoro e dell’impresa, intrappolando l’uomo entro un paradigma di sviluppo che provoca la disgregazione dei legami sociali e minaccia le fondamenta della società civile, generando sfiducia, prevaricazione, individualismo, esclusione, iniquità. Quegli stessi fenomeni che sono il cuore di quell’economia dell’esclusione – «che riduce l’essere umano ad uno solo dei suoi bisogni: il consumo», che alimenta la “cultura dello scarto” (Evangelii Gaudium, 53-55) e che ignora l’intima relazione tra le cose del mondo – contro cui Francesco ha scelto di incentrare il proprio pontificato.
Uno dei punti centrali del paradigma imprenditoriale proposto da Francesco è rappresentato proprio dal concepire il lavoro come una vocazione, un’opportunità di servizio e di miglioramento della vita di chi ci sta intorno e della società stessa. Esso, a sua volta, contribuisce a innescare un cambio di paradigma anche nell’impresa, trasformando pratiche e comportamenti, lasciando che il senso di missione pervada la stessa organizzazione, mantenendo un orientamento al risultato senza però perdere di vista la realizzazione a lungo termine dei valori dell’impresa. All’interno dei quali, la competizione si inquadra in uno spettro di valori più ampio, fatto di “cooperazione”, “mutua assistenza” e “reciprocità”.
La buona economia richiede però, accanto ai buoni imprenditori, anche buone istituzioni. Il lavoro non lo crea lo Stato, ma le imprese. Alle istituzioni spetta perciò il compito di costruire una cornice istituzionale capace di promuovere l’imprenditorialità produttiva e di disincentivare quella improduttiva, basata sulla ricerca della rendita e sulla speculazione a danno dei lavoratori. Tuttavia, come ci ricorda Francesco, «il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro». Il richiamo del Pontefice è dunque, innanzitutto, alla qualità delle istituzioni, perché le istituzioni economiche estrattive producono istituzioni politiche altrettanto estrattive, creando un circolo vizioso che impoverisce e genera esclusione. Alle istituzioni compete definire quel solido contesto giuridico al cui interno i conflitti che interessano il mondo del lavoro devono trovare risposta ed essere indirizzati verso il bene comune, promuovendo nello stesso tempo l’imprenditorialità che crea sviluppo e opportunità di lavoro.
Il ruolo delle istituzioni non deve però spingersi fino al punto da trasformare i disoccupati in “pensionati”, promuovendo politiche del lavoro che privino l’uomo dell’opportunità di lavorare, finendo così per privarlo della sua stessa dignità. Papa Francesco ci ricorda, infatti, che l’obiettivo vero da raggiungere non è il “reddito per tutti”, ma il “lavoro per tutti”, impegnando così non solo le istituzioni, ma l’intera società, secondo la responsabilità di ciascuno.
La strada è dunque quella di riscoprire il senso del lavoro, contribuendo al riavvicinamento della nostra stessa cultura (ivi inclusa quella economica e manageriale) alla verità sull’uomo. È questo il paradigma di un modello di sviluppo umano integrale che richiede leadership virtuose, capaci di materializzare la propria vita interiore nel lavoro, stemperando e correggendo quelle tendenze pericolose che portano ad assolutizzare gli interessi in gioco a discapito del lavoro e dell’uomo stesso.