I numeri sono da brivido: a Milano 2500 persone costrette a fare la spesa agli Empori della Solidarietà, con un aumento del 66% di milanesi che chiedono aiuti alimentari; il 30% di chi si rivolge al Fondo “San Giuseppe si trova già in situazione di disoccupazione.
A fronte di tutto questo, e fin dall’inizio della pandemia, Caritas ambrosiana è stata ed è in prima linea. Ma come definire il momento attuale? «Siamo in una situazione che chiamerei di sospensione», osserva monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l’Azione sociale e presidente della Fondazione Caritas ambrosiana.
In che senso?
Usciamo dall’emergenza sanitaria, e s’inizia a intravvedere l’emergenza economica, che ha già toccato le categorie più deboli, dalle collaboratrici familiari al mondo dell’ospitalità alberghiera e della ristorazione.
Tra gli strumenti di sostegno alle problematiche economiche, l’Arcivescovo ha istituito il Fondo San Giuseppe. Come si è attivato?
Devo ringraziare la generosità di moltissime persone, che hanno donato anche più volte. Abbiamo superato 6,5 milioni di euro. Sicuramente all’inizio del nuovo anno pastorale, a settembre, torneremo a rilanciare una campagna di raccolta e intendiamo anche riattivare il ramo del Fondo Diamo Lavoro. Finora è stato distribuito un milione e mezzo circa, rispondendo positivamente a 1100 domande sulle oltre 1700 giunte. Ogni settimana ci troviamo per deliberare sulle nuove richieste. Le prime persone che sono state aiutate entrano adesso in una seconda fase: non più semplicemente rispondere all’emergenza della sopravvivenza o della sussistenza, ma costruire una progettazione. In questo momento si ha l’impressione la città di Milano fatichi a ripartire rispetto ad altri territori della provincia che sembrano, nel quotidiano, trovare più possibilità.
Qual è la cifra media per un aiuto economico individuale?
Il sostegno varia a seconda dei parametri: se la persona vive sola o se ha a carico minori, se abita in una casa in affitto o di proprietà. Si aiuta da un minimo di 500 euro fino anche al doppio, per un periodo di cinque mesi, diviso in due parti: una prima di tre mesi, poi di due. L’idea di questa “divisione” nasce dalla convinzione che – dopo l’inevitabile fatica emotiva degli inizi – sia necessario che la persona aiutata, negli ultimi due mesi, pensi al proprio rilancio per ricostruire un futuro.
Qual è il profilo di chi si rivolge a questo Fondo?
La cosa interessante che registriamo rispetto alle altre edizioni è che, per esempio, non c’è grossa differenza tra gli italiani e gli stranieri. Le situazioni più deboli sono ovviamente quelle di chi ha persone a carico, non solo minori, ma anche persone anziane.
Come si può contribuire?
Sul sito della Caritas vi sono le informazioni, cosicché ognuno possa vedere come i soldi vengono utilizzati. La donazione in denaro diventa la costruzione di un legame: non è semplicemente offrire un contributo perché la Caritas faccia qualcosa, ma sentirci un popolo che insieme, a seconda delle proprie possibilità, aiuta tutti a ripartire.
Sono 900 mila gli inattivi in Italia. Un tempo si diceva «giovani che non studiano e non lavorano», ma qui si parla anche di fasce ampie della popolazione di età diverse. Sono diminuiti anche i percorsi di avviamento al lavoro…
Inevitabilmente il lockdown ha bloccato tutti i processi d’inserimento lavorativo, sono saltati tutti i tirocini: alcuni che sono stati interrotti non ripartiranno più, perché è cambiata la domanda e anche le piccole imprese avranno meno bisogni. Quello che ci stupisce è che, raccogliendo i dati di chi si rivolge al Fondo, abbiamo persone anche qualificate, con titoli di studio che in tempi normali permetterebbero di trovare un impiego, ma ora si rivolgono a noi perché annaspano.
C’è bisogno, oltre gli aiuti concreti, di un discernimento più ampio?
Sì. Occorre avviare una riflessione culturale che porti a rileggere i nostri stili di vita. Pensiamo solo agli anziani: adesso che la situazione delle Case di riposo si è stabilizzata, dovremmo chiederci chi è “l’anziano” per noi, se davvero quello è il modo di aiutare le persone che faticano a vivere gli ultimi anni della loro vita e se non dobbiamo immaginare forme di integrazione e di legame sociale diverse.