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Speciale

La Settimana sociale di Trieste

Sirio 18 - 24 novembre 2024
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Intervista

Bressan: «Ripartire da Trieste tornando a costruire il “noi”»

Il Vicario episcopale riflette sulla Settimana sociale, a cui ha partecipato con la delegazione ambrosiana: «Abbiamo rappresentato la Chiesa dalle Genti che siamo e nel prossimo anno pastorale lavoreremo sui temi toccati nell’evento, a partire da quello, fondamentale, della partecipazione»

di Annamaria BRACCINI

16 Luglio 2024

È un bilancio positivo quello che monsignor Luca Bressan, vicario episcopale di settore e rappresentante dell’Arcivescovo nella delegazione ambrosiana alla 50ma Settimana sociale dei cattolici in Italia, stila di un evento definito «partecipato e che ha coinvolto non soli i delegati, ma anche il territorio, permettendo a tanti pubblici diversi di incontrarsi. Infatti, attraverso “le piazze della democrazia” e gli stands delle buone pratiche, la Settimana ha fatto sì che molti popoli diversi della Chiesa non solo potessero conoscersi, ma capire insieme come lavorare per dare forza alla democrazia che, come dice il Papa, ha bisogno di essere curata».

Qual è stato l’apporto della delegazione ambrosiana?
Volevamo fotografare, per così dire, la Chiesa dalle Genti che siamo: non a caso, tra noi c’era anche una giovane donna rappresentante delle Comunità dei Cattolici non italiani, c’era la Caritas, c’erano giovani e chi è responsabile a livello diocesano o locale del servizio sociopolitico. Da settembre prossimo vorremmo verificare una ricaduta dei temi toccati e lavorarvi insieme.

Quindi la Diocesi rifletterà su quanto emerso a Trieste? 
L’idea è che, nell’anno pastorale che inizieremo, tali temi possano diventare uno strumento di lavoro su quel punto fondamentale non solo per la democrazia, ma anche per la Chiesa, che è la partecipazione in un momento in cui la cultura isola e rende individualisti. Occorre, invece, tornare a costruire il «noi».

Monsignor Luca Bressan

Nel suo intervento a conclusione della Settimana, papa Francesco, riferendosi alla democrazia, ha parlato simbolicamente di un cuore ferito. Qual è la ferita più grave?
Il Papa giustamente, ma anche lo stesso presidente Mattarella, ha sottolineato che il rischio mortale della democrazia si realizza allorché non ci si riconosce gli uni gli altri, non si diventa un popolo, ma una corporazione, e quindi si lavora vedendo nell’altro un nemico da combattere. La democrazia, al contrario, è quel grande strumento che permette a tutti di sentirsi a casa, riconoscendo negli altri un valore aggiunto per costruire la felicità e il futuro di ciascuno.

Sempre il Papa ha richiamato la responsabilità dei cattolici, perché – ha detto – «non possiamo accontentarci di una fede marginale. Abbiamo qualcosa da dire, ma non per difendere privilegi. Dobbiamo essere voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce». È questa la via maestra dell’impegno?
Il compito dei cattolici è effettivamente quello di dare voce a chi non ha voce. Soprattutto in questo mondo in cui le lobbies, i grandi gruppi di pressione rischiano di avere voce solo loro, e quindi di organizzare il mondo e la società a partire dalle loro necessità, occorre riorientare il «noi» collettivo, facendo emergere soprattutto i bisogni dei più poveri che sono i più marginali.

Per usare ancora le parole di papa Francesco – che ha citato il “sindaco santo” Giorgio La Pira – tocca al laicato cattolico avere la capacità di «organizzare la speranza». Ma come?
Lo si è visto in pratica, appunto, a Trieste. Credo che un modo per dare speranza sia mostrare che, in realtà, esistono tante forze positive. Spesso il racconto che facciamo della nostra società sottolinea ciò che non va, e quindi ci coloriamo tutti di un pessimismo grigio. Pensiamo anche alla rilettura della storia che hanno operato le Settimane sociali, da quando sono nate a oggi, con l’apporto positivo che hanno sempre offerto in tanti passaggi importanti per il nostro Paese: basti ricordare quella organizzata nel 1945, appena sei mesi dopo la fine della seconda guerra mondiale. Credo che si tratti di lavorare con le forze che abbiamo, che non sono, poi, così poche.

Il Presidente ha detto che non ci si può accontentare di una democrazia a bassa intensità. Secondo lei, oggi è questa la condizione della democrazia nel nostro Paese?
Dipende da come guardiamo le cose. Spesso i media raccontano la democrazia in questi termini, ma se guardiamo alla capacità che abbiamo dimostrato come nazione, per esempio, nel reagire al Covid, o nell’intervenire in determinate situazioni come i disastri climatici sul nostro territorio, ci sono forme di partecipazione che mettono in luce come vi sia ancora un’alta intensità democratica. L’obiettivo che dobbiamo porci è che questa alta intensità, “a corrente alternata”, divenga una corrente continua.

Forse, anche in questo senso, possiamo accogliere, in senso più ampio l’invito dell’Arcivescovo a non lamentarci sempre…
Proprio la Settimana sociale, a cui hanno preso parte – ed è una cosa interessante – tanti giovani, ha messo in luce che anche raccontare ciò che ha funzionato e farlo diventare un tesoro per altri può essere uno strumento buono per dare speranza e per cambiare.