Si farà comunque, in un sabato d’Avvento, la preghiera che il 7 novembre avrebbe dovuto riunire in Duomo le Cappellanie ospedaliere e quanti, a diverso titolo, accompagnano il cammino di fede dei malati negli Istituti di Cura. Un momento importante, come sottolinea il Vicario episcopale di settore, monsignor Luca Bressan.
Che significato ha questa preghiera?
Il suo significato non è univoco, ma si articola su diversi piani. Anzitutto la preghiera serve per prenderci per mano, in un momento in cui c’è il rischio che i provvedimenti adottati per il nostro bene ci portino, tuttavia, a sentirci soli. Soli non tanto fisicamente, ma emotivamente, e quindi messi davanti alle nostre ansie, alla paura della morte che è forte. Da qui vogliamo proporre una preghiera per dire che ci sono forme di legami che ci tengono insieme anche quando la porta di casa deve restare chiusa. Il secondo significato è ricordare che la peste – come scrive Manzoni nell’ultimo capitolo dei Promessi Sposi – può avere un senso se letta nel piano di Dio.
Quale senso?
La peste, la pandemia ci obbligano a fare i conti con la realtà tragica, la realtà fondamentale della vita e a scoprire che spesso abbiamo goduto di beni, quali la salute e la possibilità di incontrarci, senza apprezzarli. È proprio quando questi beni vengono a mancare che si capiscono la bellezza e la gioia della vita e si può tornare a riassaporarle. Il terzo motivo, poi, è il fatto che la preghiera testimoni come la fede sia davvero un’energia, un dono in più. Rivolgersi a Dio, a quel Dio che attraversa la malattia e la morte – pensiamo alle guarigioni di Gesù e alla sua morte in croce per noi -, ci dice che il Signore non ci lascia mai soli, accompagnandoci con il suo amore. Il segreto della vita è proprio questo amore.
E il quarto significato?
È la preghiera che ci tiene uniti proprio perché l’amore attraversa la morte. Un tenerci insieme con le persone che stanno vedendo la morte in questo momento, per il Covid, ma non solo. La pandemia ci ha un po’ chiuso lo sguardo, infatti, vediamo solo questa dimensione; ma la vita è una realtà tragica in tante e diverse situazioni nel mondo. Preghiamo anche per le persone che sono morte: siamo in comunione con loro perché tutti in attesa della vita che ci viene donata nel Regno di Dio.
La figura del Cappellano ospedaliero, nel più generale ripensamento avviato in Diocesi anche attraverso corsi di formazione rivolti appunto al personale impegnato nella cura, svolge un ruolo sempre più rilevante…
Dopo qualche decennio in cui abbiamo pensato che le mirabolanti scoperte della tecnica potessero cancellare la morte, l’esistenza delle Cappellanie ospedaliere dimostra quanto la dimensione spirituale sia ingrediente essenziale nel cammino di cura. Possiamo curare tutte le malattie, ma alla fine nessuna soluzione potrà risparmiarci dal confronto con la morte: dunque, la dimensione spirituale aiuta ogni persona, non solo i malati.
La Chiesa ambrosiana e l’Arcivescovo seguono con una grande vicinanza il mondo della malattia, seminando speranza. Qual è il suo personale segno di speranza?
Direi che è proprio l’importanza di ritrovarci in Duomo per pregare assieme – anche da lontano, grazie alle nuove tecnologie -, perché questo ci permette di condividere un’esperienza che è la dimensione del Mistero. Si entra in Cattedrale e si rimane abbagliati dalla sua maestosità, dall’armoniosità che comunica e si intuisce che questi valori – maestosità e armoniosità -, sono un simbolo concreto, edificato per ordinare la nostra vita, spesso disordinata e segnata da tanti inciampi come le malattie. Questo permette di capire qual è il filo che guida l’esistenza e la porta verso Dio. Il mio segno di speranza è questo: far vedere questo filo che ci porta a Dio e vederlo con tutti i sensi, perché non basta la ragione: serve che lo vedano gli occhi, che lo sentano le mani, ma che lo senta, soprattutto, il cuore.