Domenica 14 gennaio si apre ufficialmente il Sinodo minore «Chiesa dalle genti», con una celebrazione alle 16 nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano presieduta dall’Arcivescovo, monsignor Mario Delpini (diretta su Chiesa Tv e www.chiesadimilano.it, differita alle 17.30 su Radio Mater). Un’icona biblica accompagnerà il cammino del Sinodo: «Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Ne parliamo con monsignor Luca Bressan, Vicario episcopale e presidente della Commissione sinodale.
Qual è il senso di questo primo appuntamento?
È quello di avviare in modo capillare il Sinodo. La Commissione si è incontrata e ha elaborato un testo che nella celebrazione del 14 gennaio verrà consegnato a tutta la Diocesi perché si avvii quello che è il momento reale del Sinodo. Poi ci sarà un confronto e un ascolto che permetterà man mano di raccogliere ciò che il popolo di Dio sta vivendo riguardo al tema delle migrazioni e soprattutto della «Chiesa dalle genti».
A chi sarà consegnato il testo-guida?
In modo ufficiale ai membri del Consiglio presbiterale e pastorale diocesani, ai Decani e ai Consigli pastorali decanali, ma abbiamo invitato anche i rappresentanti dei Consigli pastorali parrocchiali perché ci aspettiamo che la discussione sia il più possibile capillare. Aspettiamo anche le comunità dei migranti, rappresentanze delle associazioni e dei movimenti ecclesiali. Anche il Consiglio delle Chiese cristiane di Milano è stato invitato a confrontarsi su come essere Chiesa dalle genti. A tutti chiediamo di riflettere in modo esplicito sul tema. Tutti devono sentirsi protagonisti del Sinodo.
L’Instrumentum laboris quali aspetti tocca in particolare? Su cosa dovranno riflettere i sinodali?
Il documento anzitutto ha una valenza teologica, ci ricorda che effettivamente c’è un disegno universale che noi abbiamo visto in Gesù Cristo, ma anche dalla creazione e dalla raccolta di popoli dentro cui la Chiesa si colloca dando testimonianza. Lo sfondo teologico è il contesto giusto per leggere la trasformazione che in effetti va inquadrata, ed è il secondo punto, quindi l’aspetto più culturale e antropologico, perché comprende anche le fatiche che facciamo e le paure che abbiamo, fino ad arrivare al momento pastorale vero e proprio, che sta a cuore al Sinodo. Si tratta di capire come cambia la Chiesa, questa Chiesa dalle genti, anzitutto imparando a condividere la nostra fede con i migranti cattolici che arrivano da noi, quindi come cambiano anche la pastorale e gli oratori. Cambia anche l’ecumenismo, perché oggi abbiamo tanti ortodossi nelle chiese parrocchiali: con loro non si tratta semplicemente di condividere servizi e prestazioni, piuttosto dobbiamo chiederci come questo interroga la nostra fede e ci rende più maturi come cristiani cattolici.
Lei vede dei rischi sulla terminologia o sullo scopo stesso di questo Sinodo?
Non tanti perché c’è molta attesa. Come dice il testo, il cambiamento culturale ci interroga al di là dei migranti, per cui l’occasione del confronto sul fenomeno dell’immigrazione diventa il luogo per trarre energie per capire come rimanere cattolici ambrosiani nel momento in cui la cultura rende difficile la traduzione della fede anche ai nostri figli e alle nuove generazioni. Oggi la trasmissione della fede è diventata faticosa. Il Sinodo è quindi l’occasione, da parte di tutti, per imparare la speranza, respirare speranza e trasmettere speranza.
Per questo Sinodo è stato scelto anche un simbolo?
Sì, ci sarà una croce, perché da una parte ci vogliamo ritrovare, come termine del Sinodo minore, nella festa di San Carlo, girando la Diocesi con la croce, proprio per segnare questa attrazione della croce di Cristo che chiama a sé tutte le genti. Dall’altra parte la croce è realizzata attraverso l’innesto di cinque tavole di legno che vengono dai cinque continenti per significare l’idea che la Chiesa raccoglie genti da tutta la terra.