«Dopo un anno di pandemia, la percezione è che ci siamo riscoperti tutti più fragili e che la morte fa parte della parabola della vita. Venivamo da un periodo in cui abbiamo pensato di poter governare le debolezze del corpo e di poter allungare la vita a nostro piacimento. Ci siamo accorti che basta un semplice virus e che tutti gli equilibri, creduti perfetti, cambiano di colpo». È chiara l’analisi del vicario episcopale monsignor Luca Bressan, che riflette – in una prospettiva ampia – su come il Covid abbia mutato il nostro modo di rapportarci alla vita e alla morte, alla salute e alla malattia.
La conseguenza di questa nuova consapevolezza qual è?
Ci siamo accorti che, di fronte alle grandi battaglie, anche quella della morte, l’individuo singolo si sente solo e che, quindi, il bisogno di avere legami fondamentali con la famiglia e la comunità è molto aumentato. Un’altra dimensione di cui ci siamo resi conto è che la vita è una domanda aperta e che la risposta – cioè il suo senso – chiede un cammino di conversione, peraltro meno facile di quanto immaginassimo. C’è bisogno di un significato, di darsi un perché in questa che l’Arcivescovo chiama «emergenza spirituale». Il rischio è di rimanere storditi, in superficie, a contemplare il dolore, facendo fatica a raccogliere le energie. E, ancora, il pericolo è anche che, concentrandoci su noi stessi, si stenti a intuire il compito che abbiamo come credenti: mostrare che c’è un futuro, che la morte non conclude tutto.
Nel Messaggio per la XXIX Giornata del Malato, il Papa richiama il concetto di Fratelli tutti e la capacità di realizzare un rapporto di fiducia vicendevole. Si tratta di quell’intuizione del prendersi cura che propone da tempo anche la nostra Diocesi?
Il Messaggio di quest’anno, effettivamente, mette in luce come, nel momento della malattia, il legame umano acquisti il suo senso più forte. È vero che il malato ha bisogno di persone che lo assistano, ma noi tutti, a nostra volta, abbiamo bisogno di essere accanto ai malati per capire il dono prezioso della vita, che altrimenti tende a essere dato per scontato e non apprezzato. Da questo punto di vista è interessante ciò che l’Arcivescovo intende proporre per la Giornata, attraverso la preghiera al Santuario del Beato don Carlo Gnocchi, giovedì 11 febbraio alle 11. Il messaggio è di tornare a vedere come Gesù sia la porta, ovvero lo spazio che ci permette di attraversare in modo diverso la malattia, scoprendone il significato profondo. È una bella intuizione, da consegnare a tutti i malati, ma anche a ognuno di noi in questo tempo, se vogliamo trovare il senso di ciò che stiamo vivendo. Tra le relazioni fondamentali di cura c’è quella con Gesù: lasciamo che sia Lui a guidarci, a permetterci di attraversare questa pandemia.
Quando saremo fuori da tutto questo, pensa davvero che qualcosa sarà cambiato? Nel dibattito odierno, per esempio, la morte era stata esclusa, adesso è ritornata prepotentemente alla ribalta…
Con la sua capacità di costruire metafore profetiche, papa Francesco ha detto più volte che il peggior rischio della pandemia è di sprecarla. Questa tentazione è annidata in ognuno di noi: si rischia di uscire in fretta da questo periodo per poterlo dimenticare altrettanto in fretta. Invece dovremmo rileggere questo lungo anno e i mesi che verranno, per armonizzarli con il resto della vita, osservando come tutti gli ideali e gli obiettivi che ci eravamo dati siano stati “purificati” da questo momento e abbiano acquistato un nuovo valore.
Così si potrebbe anche mettere mano, in altri campi, a scale di valori che credevamo granitiche…
Papa Francesco – ma anche l’Arcivescovo – continuano a dirlo: pensiamo all’economia del solo profitto. Abbiamo oggi la possibilità di comprendere che cosa è davvero da “mettere in cassaforte” e come la fede cristiana sia uno strumento formidabile di interpretazione: un crogiolo che ci permette di leggere il senso di momenti dolorosissimi come questo.