Il ricordo ha radici profonde e lontane nel tempo. Correva infatti l’anno 1970, come racconta monsignor Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara, attuale successore del cardinale Renato Corti alla guida della Diocesi piemontese. Ma la loro amicizia risale appunto a un cinquantennio fa, nei tempi «fervidi ed entusiasmanti del post-Concilio».
Come avvenne la conoscenza con il futuro Porporato?
Appena ventenne varcavo la soglia del Seminario di Saronno che, fino ad allora, era riservato all’anno di Propedeutica alla Teologia. Spirava un vento nuovo anche per la formazione seminaristica, che si immaginava un modo rinnovato per far passare il prete, dalla figura tridentina di uomo “del sacro”, al pastore di comunità. Le linee guida indicavano non più solo un anno propedeutico seguito da 4 anni di Teologia, ma un biennio di teologia di marcato orientamento vocazionale e spirituale, seguito da un triennio con una forte connotazione teologica e pastorale. Per questo progetto, accanto al rettore, l’attuale vescovo monsignor Marco Ferrari, e all’indimenticabile don Giulio Comi, come padre spirituale era stato scelto don Renato Corti, proveniente dal vicino Collegio di Gorla Minore, allora fucina di futuri professionisti cristiani. Il corpo degli educatori vantava un nutrito gruppo di valenti sacerdoti, tra i quali si era fatto notare il giovane don Corti, che aveva solo 34 anni, ma che impresse subito il suo timbro di accentuata spiritualità. Tre parole ci fecero da guida: il deserto, le figure spirituali, la comunità. Egli seppe dare un volto al biennio filosofico, dove insegnavano uomini del calibro di Ravasi, Sequeri, Coletti, Margaritti.
Come interpretò don Corti questo suo ruolo di alta responsabilità?
Lo fece in modo del tutto spirituale. Sentiva che un’infarinatura solo ideologica avrebbe procurato danni, bisognava dare alla formazione sacerdotale una vita spirituale robusta e densa. Bisognava imparare a diventare discepoli. A questo fine, il testo fondante era Sequela di Dietrich Bonhoeffer, che il teologo trucidato dai nazisti aveva proposto per il Seminario di Finkelwalde. Nel frattempo don Sequeri ci aveva consigliato di leggere Introduzione al Cristianesimo di Joseph Ratzinger, fresco di traduzione in italiano. In un mese lo avevo divorato. Don Corti, inoltre, aveva invitato per il Corso di esercizi l’indimenticabile dom Mariano Magrassi, poi arcivescovo di Bari. Rimane memorabile, durante la prima settimana di Quaresima, la sua strigliata, quando mise in guardia sia quelli che non erano ancora entrati, sia quelli che erano già usciti dal deserto, perché nel deserto – aggiungeva – bisogna «dimorare» per innamorarsi di Gesù e della gente.
Indicò a voi giovani seminaristi anche figure spirituali di riferimento?
Don Renato ne scelse due agli antipodi: un legionario francese che si era ritirato prima a Nazareth e poi nel deserto algerino e una sindacalista contemplativa nelle periferie operaie: Charles de Foucauld e Madeleine Delbrêl. Quasi due anime – il deserto e la strada – da tenere in tensione anche nella spiritualità del prete diocesano. Sono stati due anni che hanno inciso profondamente sulla nostra duttile anima di giovani aspiranti al presbiterato.
Come venne affrontato il tema della comunità, cruciale nei primi anni conciliari?
Ci fu trasmesso attraverso l’incantevole testo Vita comune di Bonhoeffer, accompagnato dalle acerrime discussioni su come vivere la tensione tra comunità psichica e comunità spirituale, e la ricerca di nuove forme di collaborazione del pastore con i confratelli e con la gente. Lo ha riconosciuto anche papa Francesco nel bel messaggio inviato alla nostra Diocesi per onorare la memoria del Cardinale: «Penso al suo genuino amore per la missione e il ministero della predicazione che ha esercitato con grande generosità, in tutto animato dal desiderio appassionato di comunicare il Vangelo di Cristo». Con questo amore appassionato egli ci presentava le figure degli apostoli ed evangelizzatori del Nuovo Testamento come se fossero in carne e ossa davanti ai nostri occhi. Questo è il don Renato che ho conosciuto con la passione evangelica che l’ha consumato fino agli ultimi anni, anche dopo aver lasciato Novara.