Una proposta pastorale che… non è proprio – o essenzialmente – una proposta pastorale. Lo ha scritto, e lo ha ripetuto a voce, lo stesso arcivescovo Mario Delpini, a proposito della lettera alla diocesi Viviamo di una vita ricevuta, presentata l’8 settembre, Natività della Beata Vergine Maria, giorno in cui tradizionalmente prende avvio l’anno pastorale ambrosiano (leggi qui). «Più che una proposta pastorale – scrive monsignor Delpini – questo testo è l’appello a prendersi le proprie responsabilità, a curare confronti e approfondimenti, a elaborare proposte pastorali coerenti».
Sullo sfondo c’è una lettura, schietta eppure carica di speranza, del tempo che attraversiamo: un contesto nel quale «la proposta cristiana può essere considerata – sono sempre parole sue – una sorta di stranezza d’altri tempi». Non fa sconti, Delpini, va al dunque. Così, allo stesso modo, evidenzia il «punto di partenza irrinunciabile», ovvero «la professione di fede che riconosce la vita come dono di Dio». In questo contesto i cristiani, che «non vogliono e non possono giudicare nessuno», sentono semmai «la responsabilità di essere originali». Da qui la chiamata a un impegno coerente e consapevole e a una testimonianza limpida, formata, dialogante, che sappia osare anche strade nuove (quanto ce n’è bisogno!) in ambiti essenziali della vita di ogni giorno: l’educazione affettiva, la preparazione al matrimonio, l’accoglienza della vita, il lavoro, la pace, il tempo della terza età. C’è, al fondo, il richiamo alla cura e all’amore per ogni persona così come Dio stesso l’ha immaginata, voluta, creata.
Un aspetto particolarmente interessante del testo è il doppio (e potremmo dire convergente) binario con cui ogni capitolo affronta gli argomenti sopra esposti. A una approfondita e motivante lettura dei singoli temi (affettività, lavoro, pace…) si abbinano pagine che indicano esperienze positive già in essere, realtà operanti sul territorio diocesano, proposte consolidate e altre avviate più di recente. Quasi a dire: non è sufficiente proporre analisi e idee o affermare dei principi, ma, con stile concretamente ambrosiano, occorre rimboccarsi le maniche e agire. Anche ricercando alleanze in ambito sociale e civile. Essere originali e attivi al contempo.
Forte il richiamo vocazionale da parte dell’Arcivescovo: «Gesù è vivo e la sua presenza, la sua Parola, il dono dello Spirito Santo non sono verità da affermare solo con un assenso intellettuale o verbale, ma sono modalità con cui siamo chiamati per nome», riconoscendo che «la vita è vocazione». Ed ecco l’invito affinché ciascun credente provi a «vivere la relazione con Dio come Padre, per essere figli di Dio, nell’esercizio della propria libertà». Interpretare la vita come dono, sperimentare una libertà “per”, sono «l’antidoto più necessario per resistere alla tentazione dell’individualismo» che mina i rapporti tra le persone, che fa anteporre l’“io” al “noi”, indebolendo la società nel suo insieme. Un rischio dal quale la stessa comunità cristiana deve guardarsi.
C’è un versetto del brano evangelico dei discepoli di Emmaus che mi interroga da tempo. I due conoscono bene quanto è avvenuto a Gerusalemme (lungo il cammino «conversavano di tutto quello che era accaduto», Lc 24, 14), tanto da raccontarlo allo “straniero” incontrato lungo il cammino. Ma le notizie e una fredda conoscenza dei fatti non bastano a riscaldare il cuore. Riconoscono Gesù solo allo spezzare del pane. Come a dire: occorre “sperimentare” Gesù, stargli accanto. Così nasce la chiamata, la vocazione, la passione per la testimonianza evangelica, che fa loro dire: «Non ci ardeva forse il cuore…?» (Lc 24, 32). Si rimettono in cammino per la loro testimonianza del Risorto. È lo stesso brano che l’Arcivescovo richiama in Viviamo di una vita ricevuta (p. 56), invitandoci a «seminare speranza» e a «prenderci cura» della «speranza di tutti». Un compito urgente e gioioso per la comunità cristiana milanese.