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Intervista

Bazzari: «Don Gnocchi, una “scuola” pastorale, umana e civile»

Dopo 23 anni in cui ha ideato e guidato efficacemente lo sviluppo della Fondazione, lascia la presidenza a don Enzo Barbante, ma continuerà a custodire e diffondere il messaggio del Beato

di Annamaria BRACCINI

16 Dicembre 2016

«Sono molto fiero di aver vissuto un’avventura “a casa” di don Gnocchi, di aver assimilato la sua passione, la sua creatività, la sua fantasia nel servire i più bisognosi. Sento anche gratitudine per aver potuto lavorare con un personale di grande professionalità, d’ingegno e di forte umanità. Risorse, queste, che hanno contribuito a far maturare riguardo alla Fondazione un patrimonio di reputazione molto vasto e di stima per il suo operato»: dice così monsignor Angelo Bazzari, alla guida della Fondazione don Carlo Gnocchi Onlus da 23 anni, al quale in questi giorni è succeduto come presidente don Vincenzo Barbante.

Oltre l’emozione “a caldo”, come rilegge complessivamente il suo impegno nell’Ente?
Anzitutto devo dire che mi giudico un “nano” rispetto a don Gnocchi, un “gigante” che mi ha permesso di vivere idealmente in quella cerchia di «Amis, ve raccomandi la mia baracca», come disse prima di morire. Un lascito che ho cercato di onorare al meglio. Oggi, dopo una vita dedicata al sociale e al sanitario, dove mi sono realizzato come sacerdote – prima per un decennio in Caritas Ambrosiana e poi con questi 23 anni di lavoro – credo di aver maturato un’esperienza e una coscienza dei problemi non solo pastorali, ma anche civili e umani. In questo senso, mi ritengo un figlio spirituale del cardinale Martini, che mi ha incardinato in Diocesi, voluto al timone di Caritas e della Don Gnocchi, ma non posso dimenticare l’aiuto e il sostegno sempre ricevuti anche dal cardinale Tettamanzi e dal cardinale Scola.

Qual è l’iniziativa che l’ha resa orgoglioso?
Vorrei indicare tre linee su cui ho voluto insistere. Come primo obiettivo, puntare a realizzare il sogno incompiuto di don Gnocchi, che voleva andare verso il Sud del Paese. Il fondatore ha allargato la sua opera a Salerno, immaginando di farne una “testa di ponte” per poter affrontare il problema dei mutilatini e poliomielitici in quelle zone, ma non ci riuscì. Dopo diverse riflessioni, noi abbiamo voluto ritentare l’impresa per incontrare non solo qui i “treni della speranza” che continuano a venire al Nord per cercare qualità nella cura – sono quasi un milione di persone -, ma andando noi da loro, facendoci presenti con lo spirito di don Carlo, piantando la tenda della solidarietà nella cultura territoriale. Quando è morto don Gnocchi esistevano 9 Centri, ora siamo a 28 proprio per questo motivo.

Il secondo elemento caratterizzante?
Altra peculiarità è stata offrire, come Fondazione, contenuti scientifico-culturali di ricerca riconosciuti dall’attribuzione alle due nostre realtà di Santa Maria Nascente a Milano e di Firenze della qualifica Ircss. Ritengo che sia la consacrazione di un percorso fatto con innovazione tecnologica e ricerca, cercando di accorciare la distanza tra il laboratorio e il letto del malato. La terza condizione è quella di aver dato anche un respiro internazionale dotato di organicità alla nostra Fondazione: così nel 2000 abbiamo ottenuto dal Ministero per gli Affari esteri il riconoscimento di Ong.

Insomma, un impegno a 360 gradi e ora una nuova sfida come «incaricato dell’Arcivescovo di Milano per la custodia e la diffusione del messaggio del Beato»?
Il più forte ringraziamento che sento è per don Carlo perché mi ha dato la possibilità di esplorare il suo pensiero, la sua opera, di ereditare la sua genialità e soprattutto la speranza che ha seminato abbondantemente nei cuori. Di lui abbiamo cercato di pubblicare tutto il possibile, perché sono convinto che ci sia ancora molto da imparare dalla sua cattedra di maestro, di testimone e di santo, quale certamente sarà.

 

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