«È un impegno del quale non mi sento certamente all’altezza, ma che spero di onorare al meglio, puntando sull’aiuto e sulle competenze di tutti i Dottori e dei collaboratori laici. Credo di avere un debito particolare di gratitudine verso l’arcivescovo Delpini, che ringrazio, verso il mio predecessore e verso il cardinale Ravasi, che mi accolse quando era a sua volta Prefetto. L’Ambrosiana tutta, a cui voglio davvero bene, mi ha arricchito, attraverso il lavoro, di tanti doni umani e sacerdotali che, sono sicuro, aumenteranno ancora». Dice così monsignor Marco Ballarini, nuovo Prefetto della Biblioteca Pinacoteca Ambrosiana, spiegando l’emozione con cui ha accolto la notizia della sua nomina alla guida della prestigiosa istituzione fondata dal cardinale Federico Borromeo nei primi anni del 1600. Luogo fisico e simbolico di bellezza e di fruizione e produzione della cultura, nel quale monsignor Ballarini lavora e vive, come Dottore, da oltre un ventennio.
Quali sono i sentimenti con i quali è entrato in Ambrosiana nel 1994 e quelli che sente oggi all’inizio del suo mandato quinquennale di Prefettura?
Lo stato d’animo fondamentale è sempre il medesimo, quello di una grande inadeguatezza. Ricordo la prima occasione in cui entrai nell’attuale Sala Luini, dove allora studiavano i Dottori, mentre era in atto il totale restauro dell’Ambrosiana. Mi avvicinai al tavolo di monsignor Enrico Galbiati – che era stato mio professore in Seminario – e rivolsi a lui con un timoroso: «Buona giornata, Monsignore. Vedo che è tornato allo studio della sua amata lingua araba…». E lui, con la sua voce baritonale, inconfondibile e un poco strascinata, alzando appena la testa: «Non è arabo, è persiano!». Un’entrata trionfale, come si può vedere. È così anche ora. Ma ho attorno a me tante persone con grandi capacità e disposte ad aiutarmi in tutto. Per questo spero di sopravvivere…
È naturalmente troppo presto per formulare progetti e programmi, ma c’è un ambito che le sta particolarmente a cuore e nel quale vorrebbe agire a breve?
L’Ambrosiana ha attraversato periodi diversi; in alcuni momenti è stata vivacemente inserita nella vita cittadina; in altri è sembrata invece più una “torre d’avorio”, che si apriva soltanto a pochi eletti. Credo che il rapporto con la città sia, invece, inevitabile: ormai non si può più immaginare una istituzione culturale come l’Ambrosiana isolata dal tessuto cittadino. Con monsignor Ravasi – a cui devo sempre maggiore riconoscenza – era il Prefetto stesso il vero trait-d’union tra Ambrosiana e vita culturale milanese. In seguito, soprattutto attraverso l’Accademia, ci siamo aperti non solo alla città, ma al mondo, urbi et orbi, se possiamo permetterci di usare, senza rischio di profanazione, una formula secolare. Il merito in questo caso è essenzialmente di monsignor Franco Buzzi, Prefetto negli ultimi dieci anni. Ora non si tratta certo di cambiare strada, quanto piuttosto di approfondire uno stile, quello del “buon vicinato” indicatoci dall’Arcivescovo nel suo Discorso di Sant’Ambrogio. Facendolo a cerchi concentrici, naturalmente: innanzitutto con le istituzioni culturali, ma poi anche partecipando con disponibilità a tutti quei tavoli dove si affrontano i vari problemi metropolitani, perché credo che alla fine tutto sia cultura. E questo con rispetto per ogni realtà e senza pretendere “il primo posto a tavola”, se non altro perché ce lo vieta il Vangelo. Anzi, saremo davvero riconoscenti a quanti ci aiuteranno a scoprire il modo nel quale possiamo “pagare la nostra decima”.
In occasione della visita del Santo Padre a Milano dello scorso 25 marzo, durante il saluto dei Canonici del Duomo sul sagrato, quando giunse il suo turno – qualcuno lo ha notato – il Papa sembrò non solo sorridere, ma quasi ridere. Una curiosità: cosa vi siete detti?
Credo sia stato a causa di ciò che disse l’Arciprete, monsignor Gianantonio Borgonovo, per presentarmi al Santo Padre: «Ecco monsignor Marco Ballarini, letterato». Probabilmente papa Francesco avrà pensato: “Ma da dove l’hanno riesumato un letterato? Forse l’avevano dimenticato in qualche armadio del Settecento…”.