Usa parole forti, l’Arcivescovo, per descrivere alcune delle celebrazioni liturgiche cui partecipano i fedeli ambrosiani: «tristi, grigie, noiose», scrive nella Proposta pastorale 2021-22. Ne parliamo con Raymond Bahati, di origine congolese, in Italia dal 2002, direttore del coro multiculturale Elikya, membro del Consiglio pastorale diocesano e della Consulta «Chiesa dalle genti».
Capita spesso di assistere a celebrazioni «tristi, grigie, noiose». Cosa ne pensa?
Quando abbiamo iniziato a lavorare nella commissione per il Sinodo minore «Chiesa dalle genti», uno dei punti su cui mi sono focalizzato era proprio la liturgia, che purtroppo ha fatto allontanare dalla Chiesa cattolica ambrosiana molti miei connazionali, perché non ci si ritrovavano più. E dove sono andati? Nelle Chiese evangeliche, gestite da africani che hanno capito la necessità dei loro fratelli e sorelle di ritrovare una liturgia viva, capace di esprimere tutta la gioia della risurrezione di Cristo. Abbiamo perso e continuiamo a perdere tanti fedeli perché la Messa non esalta la Parola di Dio: lo stesso Gloria, a livello musicale dovrebbe essere esplosivo.
E qual è la sua esperienza tra gli ambrosiani?
Mi è capitato di andare a una Messa alle 18 in una chiesa di Milano e non c’era il coro. Sono rimasto scioccato. Non ce la facevo più perché mi mancava quella gioia e così dall’assemblea mi sono improvvisato e ho intonato l’Alleluia, il Santus e il canto finale. Era più forte di me, mi sentivo in colpa, ma mi dicevo: «Il Signore mi ha donato la voce e devo aiutare a cantare». Questo mi è capitato più di una volta. Spesso sento dire: «Abbiamo sempre fatto così». È la tentazione dell’abitudine e l’abitudine è un veleno, perché fa perdere la lucidità di leggere i cambiamenti dei tempi. Gli stessi giovani hanno un linguaggio musicale diverso, quindi non si ritrovano più.
Che cosa rende le Messe più vivaci?
La partecipazione dell’assemblea. In un Consiglio pastorale diocesano dicevo quanto mi sarebbe piaciuto portare tutti i membri a una Messa in Congo per far vedere come partecipa l’assemblea. È festa. Qui da noi manca lo spirito della festa. Forse perché c’è una cultura individualista, per cui ognuno ascolta la propria musica con le cuffie e non condivide l’esperienza, se non ai concerti e in discoteca. La liturgia non coinvolge, non basta conoscere i canti, occorre che i canti interpretino il linguaggio dei tempi. Non bisogna creare qualcosa di straordinario, ma interpretare il linguaggio di oggi e renderlo vivace. Il canto è uno strumento potente di condivisione, emozione e sentimento, ma se non viene condiviso è tristezza pura e la gente si annoia.
Il vostro coro Elikya è un bell’esempio di «Chiesa dalle genti»…
L’intento è proprio questo. All’inizio ricordo che la gente faticava a capirlo e non sapevo come esprimerlo. Così, invece di fare mille discorsi, abbiamo preferito dare testimonianza, più efficace di tante parole. Occorreva creare qualcosa di tangibile e dimostrare che si è più Chiesa cattolica, universale, non soltanto a chi crede in Cristo, ma ai figli di Dio di qualsiasi credo che si ritrovano insieme a glorificare Dio. La musica unisce le sensibilità. Io sono fiero e felice che la nostra Diocesi abbia uno strumento come Elikya, sia per sperimentare, sia per esprimere l’universalità della nostra Chiesa. Il coro va in questa direzione, esiste da 11 anni ed è attento a cogliere le indicazioni dell’Arcivescovo, il cardinale Scola prima e monsignor Delpini poi. Non siamo una realtà privata, ma al servizio della nostra Chiesa ambrosiana.