Il 17 gennaio ricorre la XXXIII Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei. Come procede il confronto interreligioso tra le due fedi? Il rabbino capo di Milano rav Alfonso Arbib, figura molto nota, confermato nel novembre scorso alla presidenza dell’Assemblea Rabbinica Italiana, non ha dubbi: il dialogo, seppure con qualche «incidente di percorso che può capitare», prosegue con impegno da parte di tutti.
Come definirebbe i rapporti con il mondo cattolico, oggi?
Credo che siano molto buoni e da molto tempo, tuttavia, questo non toglie che permangano problemi, generalmente di tipo teologico. È ovvio che siamo diversi ed è giusto esserlo. Anche se, di recente, vi sono state incomprensioni per quanto riguarda la Giornata del Dialogo, differentemente da anni precedenti, sono convinto che ci intenderemo. Infatti avremo un incontro a Roma, proprio il 17 gennaio, come Rabbinato Italiano, con la Conferenza episcopale e arriveremo sicuramente a risolvere le incomprensioni.
Il desiderio di continuare su un binario di dialogo c’è e vi sono temi sui quali insistere?
Assolutamente sì: il desiderio è diffuso e condiviso. Per quanto riguarda i temi, credo che una questione centrale del dialogo ebraico-cristiano debbano essere le nuove forme di antisemitismo. Su questo siamo ancora legati al passato, ragioniamo con schemi che dobbiamo aggiornare, sia noi ebrei, sia i cattolici. Un altro elemento per noi importante è il rapporto con lo Stato d’Israele.
Come vede la situazione nel nostro Paese relativamente all’antisemitismo? Non possiamo dimenticare che a fine gennaio ricorre la Giornata della Memoria e si ricorda anche la deportazione degli ebrei milanesi…
Ho l’impressione che abbiamo tutti sottovalutato il problema, a cominciare da noi. L’antisemitismo è ripreso dappertutto, evidenziando una saldatura tra vari tipi di antisemitismo, che vanno da quello classico di estrema destra, fascista e neonazista, alle nuove forme di antisemitismo islamico. Il fatto che il fenomeno stia sicuramente rialzando la testa – pensiamo, ad esempio, agli haters, gli «odiatori in rete» – è preoccupante, senza considerare che la vicenda della pandemia ha alimentato la diffusione di un vecchio antisemitismo che ben conosciamo: quello del complotto ebraico che starebbe dietro anche al Covid e ai vaccini.
A proposito di pandemia, crede che la base di un’esperienza vissuta da tutti senza differenze di etnia o credi religiosi possa facilitare il dialogo tra le diverse fedi?
Purtroppo viviamo una sofferenza comune, più o meno allo stesso modo. Un’idea fondamentale – per la religione ebraica, e non solo – è che Dio ha molti modi di parlare con l’uomo e che la sofferenza è uno di questi. Sta a noi capire il messaggio che ci arriva. Con questo non voglio dire che sia una punizione per l’uomo, però certamente c’è qualcosa da capire e possiamo farlo insieme.
Per questo, sia mesi fa con l’Arcivescovo, sia nell’evento promosso per la Giornata, la figura di riferimento è stata Giona?
Si, perché è un modo per affrontare il tema della sofferenza e anche il nostro rapporto con gli esseri umani in generale. Il dilemma di Giona è, da una parte, un’accesa discussione con Dio sulla giustizia, dall’altra, l’atteggiamento da avere verso l’umanità. Credo che ci sia molto da imparare.