«La sfida che ci troviamo ad affrontare è una sfida mai vinta, eppure carica di valori positivi per via dell’accoglienza concreta che essa implica, della continua messa in campo dell’ascolto, della reciprocità e della salvaguardia della diversità». È questo lo spirito che emerge dalle risposte alla traccia «Educatori e giovani» del Sinodo minore “Chiesa dalle genti”. Una visione curiosa – sostanzialmente positiva e propositiva – della presenza dell’altro, senza nascondersi problemi e fatiche. Forse perché a rispondere sono stati soprattutto laici, donne e giovani, ovvero studenti, insegnanti ed educatori, che vivono da dentro il mondo giovanile (oratori, associazioni e movimenti, gruppi sportivi) e della scuola (secondaria e università) e si confrontano quotidianamente con la diversità.
Per molti di loro il Sinodo minore ha rappresentato una preziosa occasione per riflettere su temi cruciali che segnano il nostro tempo in profonda trasformazione. E ha offerto l’occasione per incontrare gli altri (membri della propria comunità ecclesiale, colleghi di lavoro, migranti…), per confrontarsi e crescere nella consapevolezza della convivenza plurale a livello non solo sociale, ma anche ecclesiale.
Certo non sono mancati coloro che hanno evidenziato diffidenze e chiusure, insieme a valutazioni tendenzialmente stereotipate. Talvolta emerge anche la «paura del confronto perché implica sempre un cambiamento». Dentro questa cornice, «l’incontro con l’altro è spesso vissuto come un rischio per la vita della società», anche se poi c’è chi ha fatto notare come si stia perdendo per certi aspetti «l’occasione di potersi arricchire come società plurale».
È emersa anche una certa differenza tra la città di Milano e le altre zone della Diocesi. In città, più facilmente, si trovano migranti nelle scuole e negli oratori. Tuttavia, in modo trasversale, molti hanno fatto notare come le tematiche poste dal Sinodo minore riguardano tutti e, soprattutto, la nostra convivenza futura. Ciò emerge, per esempio, in modo significativo rispetto al necessario approfondimento della nostra cattolicità – ovvero universalità -, così come rispetto all’importanza sempre più fondamentale dell’intercultura che – al di là delle relazioni con ragazzi stranieri nelle scuole – riguarda una prospettiva di fondo da assumere nelle relazioni intersoggettive con l’altro, sempre diverso da sé.
Alcuni studenti dell’Università cattolica coinvolti in focus group dalla professoressa Monica Martinelli – sociologa e pure lei membro della Commissione del Sinodo – hanno fatto notare come l’incontro con l’altro costringa a «cambiare lo sguardo con cui si osservano questi nostri fratelli, riconoscendo anzitutto la comune appartenenza al popolo di Dio». L’incontro con il diverso, l’altro da noi – hanno fatto notare in molti – costituisce infatti fonte essenziale per la nostra crescita come esseri umani. Il contatto con l’altro apre orizzonti nuovi, aumenta il bagaglio culturale e di conoscenze, rende (o dovrebbe rendere) meno egoisti e più empatici. Insomma un approccio sostanzialmente positivo, anche se appunto non sono mancate le sottolineature di aspetti problematici. Che spesso, però, riguardano soprattutto il nostro modo tradizionale e un po’ affaticato di vivere la fede e di sentirci parte della comunità cristiana.
«Rivitalizzare la fede» è un’istanza emersa da giovani ed educatori. Anche se poi molti si sono soffermati a discutere soprattutto della sfida del “meticciato” e della “multiculturalità”. Forse perché ci vivono dentro, senza troppo porsi domande. Tale multiculturalità “accade” in modo informale nei quartieri, nelle strade, nei luoghi di vita quotidiana, negli oratori (soprattutto quelli estivi o i doposcuola parrocchiali, anche se le famiglie non frequentano le comunità ecclesiali). Nel caso degli alunni stranieri, così come degli studenti universitari, il “meticciato” è un dato di fatto divenuto quasi scontato.
La scuola, in particolare, viene vista «come una palestra di interculturalità sia civile sia religiosa», un “laboratorio” e un «luogo protetto, dove la presenza dello straniero non suscita reazioni negative, soprattutto nel caso delle scuole dell’infanzia e primarie». Anzi, la presenza di alunni stranieri stimola la creatività e innesca processi di costruzione della “casa comune”, dove si impara anche a dare un nome ai pregiudizi, in modo che questi non si esasperino fino a definire forme di ghettizzazione pericolose, soprattutto fuori dai cancelli scolastici.
E se l’istituzione scolastica sembra non essere ancora sufficientemente “attrezzata” per rispondere ai tanti e diversi bisogni, molte le riconoscono un impegno fitto e, in qualche caso, anche straordinario rispetto alle risorse a disposizione. Il grande nodo che tocca da vicino la scuola è l’emergenza educativa che riguarda tutte le giovani generazioni, al di là dell’appartenenza culturale. Così come molti si interrogano sul ruolo degli insegnanti di religione e sui contenuti stessi dell’ora di religione, che secondo alcuni andrebbero ripensati.
Insomma, dal mondo giovanile e dei formatori-educatori sono emersi molti stimoli interessanti che interpellano tutta la comunità ecclesiale, ma anche la società in senso lato, sulla possibilità di un’apertura a nuovi orizzonti e di una crescita umana e spirituale.