Attività caritative, come l’Opera che fonda e che ancora oggi porta il suo nome. Tre volte la Visita pastorale portata sul territorio (fino allo scoppiare della prima guerra mondiale e finché riuscì, prima del aggravarsi della malattia che lo portò alla morte). E poi i rapporti con movimenti, associazioni, gruppi, l’attenzione al laicato e anche uno specifico peso politico nel panorama cattolico milanese. Tutto questo fu il cardinale Andrea Carlo Ferrari, che per le sue tante iniziative qualcuno definì «moto perpetuo», e il cui episcopato (1894-1921) – si è detto, molto autorevolmente – il primo con cui la Chiesa ambrosiana entra a pieno titolo nella modernità. Ferrari, «uomo di Dio, uomo di tutti», Arcivescovo anche in tempo di guerra e di pandemia, con l’influenza spagnola che colpì duro le terre ambrosiane. Ad approfondire il coté sociale ferrariano è Agostino Giovagnoli, docente di Storia contemporanea presso l’Università cattolica del Sacro Cuore.
Che anni sono?
Sono quelli in cui Milano, in effetti, si apre alla modernità: anni cruciali in cui l’industrializzazione si fa sentire, con la novità del conflitto economico e sociale che culmina con una protesta che non ha precedenti e la dura repressione dei moti del 1898 da parte del generale Bava Beccaris. Uno storico famoso, Fausto Fonzi, li ha definiti «gli anni dello Stato di Milano», perché la città in quel momento è il laboratorio d’Italia. Il cardinal Ferrari, con la sua sensibilità pastorale, sente la sfida che comporta il cambiamento, ed è molto attivo, con la sua predicazione e presenza concreta tra gli strati popolari della città e della Diocesi. Sono sue iniziative come quelle dei Cappellani del lavoro: un chiaro segno della sua attenzione al mondo popolare, che proprio allora vive un nuovo protagonismo. Verrà molto criticato per questo – considerato, dal cattolicesimo più conservatore troppo debole nel condannare le proteste -, ma la verità è che non gli si perdonano le complessive aperture in chiave sociale. D’altra parte, si tratta di un vescovo che gode della fiducia piena di Leone XIII e che ha fatto una carriera molto rapida, diventando Arcivescovo di Milano nel giro di pochi anni, proprio perché il Papa della Rerum Novarum e della Dottrina sociale della Chiesa, vede in Ferrari un Pastore sensibile a questi temi.
Dunque, un vescovo moderno e non modernista, come venne additato anche in ambienti vaticani?
Il modernismo è un’accusa che gli venne rivolta più tardi, durante il pontificato di Pio X, e che ha a che fare con le sue aperture, questa volta, sul piano culturale, alle quali diede forte stimolo. Fu anche molto sensibile al ruolo del laicato – e questo spiaceva molto agli antimodernisti – e a un impegno nuovo dei cattolici sul piano politico, nel superamento del non expedit, con simpatie verso la prima democrazia cristiana. Tutto questo rientrò nelle accuse di modernismo, seppure forse la causa principale di tali attacchi fu l’incomprensione che si stabilì tra Pio X e Ferrari e che culminò nei cinque anni famosi in cui l’Arcivescovo di Milano non venne mai ricevuto dal Papa a Roma. Nel 1914 morì Pio X, venne eletto Benedetto XV e per il Cardinale si aprì una stagione più felice.
Proprio Benedetto XV definì la prima guerra mondiale, nel 1917, «inutile strage». Come si pose Ferrari di fronte alla tragedia bellica?
L’Arcivescovo si mosse in sintonia con la sensibilità del Pontefice, che era appunto a favore della pace. Interessante notare che, in questo contesto, si aprì un conflitto con padre Gemelli, in quegli anni fortemente impegnato nel coinvolgimento e nel sostegno dei cattolici in guerra e per la consacrazione dell’Esercito italiano al Sacro Cuore. Su questo vi furono divergenze forti: basti pensare che padre Gemelli fondò un giornale sostanzialmente filo bellicista, Patria, che Ferrari non appoggiò mai.