Non conosceva una parola di albanese, don Alberto Galimberti, quando è arrivato nella missione di Blinisht-Lezhe, nel nord del Paese. Ha dedicato i primi mesi a imparare la lingua e a conoscere la realtà, collaborando con don Enzo Zago. «A maggio sono rimasto solo e ho iniziato a fare il parroco a tutti gli effetti», dice il fidei donum (qui la presentazione della visita dell’Arcivescovo).
Qual è il contesto in cui opera?
È una zona cattolica di villaggi nella pianura Zadrima, tra la costa e la montagna, separata da una catena di colline, tra Lezhe e Scutari. In passato gli abitanti hanno vissuto di agricoltura, durante il comunismo c’era anche qualche fabbrica, ma poi il regime ha azzerato tutto, distrutto chiese, arrestato e ucciso preti e religiosi. Non c’era tolleranza. Oggi vivono di agricoltura e allevamento di sussistenza con un campo e una mucca. Nei villaggi c’è un’evoluzione e un’involuzione.
In che senso?
L’evoluzione è dovuta alla costruzione di nuove case: fino al 1991-92 erano piccole e molto vecchie. L’involuzione è rappresentata dalla fuga dall’Albania. L’emigrazione è stata fortissima e lo è tutt’ora. I giovani non hanno speranza, se pensano al futuro non lo vedono. Dopo il regime comunista c’era entusiasmo, si sentivano liberi. Quando è arrivato don Antonio Sciarra ha iniziato a costruire chiese, celebrare la Messa, raccogliere persone, battezzare… La situazione è migliorata, sono arrivati anche tanti aiuti perché c’era una povertà estrema. Poi è subentrato don Enzo Zago che ha favorito il lavoro, ha creato piccole cooperative (produzione di olio, vino e altro) per poter commerciare. Oggi resistono solo quelli che hanno iniziato 25 anni fa, non c’è ricambio perché i giovani se ne vanno.
Ora la gente come vive?
In villaggi un po’ svuotati, in piccole comunità, caratterizzate da accoglienza e semplicità. Gli albanesi sono accoglienti, vivono tranquilli, senza frenesia, stanno in case. Soprattutto durante l’inverno in cui le giornate sono corte, ti accolgono e ti danno da bere, da mangiare, per loro è festa. E poi sono semplici, l’incontro è spontaneo, non sono diffidenti, ma aperti e senza tante pretese. Qui i ragazzi vanno a scuola, al catechismo e in oratorio, per il resto stanno in famiglia e aiutano in casa se i genitori hanno un campo da arare o le mucche. Ci sono anche molte fragilità sociali. La famiglia albanese è patriarcale, il padre decide tutto, e quando i giovani se ne vanno, le famiglie si sfaldano, rimangono più fragili. Poi c’è la droga (non solo perché l’Albania la coltiva) e se entra nelle famiglie le rovina.