«A tutti e a ciascuno»: con questa formula semplice e cordiale il cardinale Dionigi Tettamanzi soleva rivolgere il suo saluto. Soprattutto quando si trattava di grandi folle, egli esprimeva con questo modo il suo desiderio di raggiungere tutti, di farsi vicino a ciascuno. Resta nella memoria la sera del suo ingresso quando, finita la celebrazione, s’intrattenne per oltre due ore e mezzo a salutare «tutti e ciascuno». E così è capitato infinite volte dopo le visite nelle parrocchie e nei momenti d’incontro. Egli amava dire che l’incontro personale è più efficace delle molte parole che noi possiamo pronunciare.
Questo ricordo esprime la sua ansia pastorale missionaria, su cui ha dato la sveglia alla sua Diocesi in un momento in cui clero e laici potevano ancora illudersi di non dover cambiare molti modi di far pastorale. Il suo può ben dirsi un episcopato dal tratto marcatamente “pastorale”: così l’ha insistentemente richiamato a noi, così è passato anche nella percezione delle persone, non solo vicine, ma anche lontane.
Molte cose si dovrebbero dire per disegnare il tratto pastorale dell’Arcivescovo Dionigi. Si potrebbero percorrere le sue lettere pastorali sul volto missionario della Chiesa e sulla famiglia nel rapporto tra Chiesa e società, i suoi interventi a Sant’Ambrogio. Ancora, la sua spinta pastorale ha messo in moto una Chiesa dalle strutture complesse e qualche volta un po’ pachidermiche, snellendone le articolazioni fondamentali. Il cardinale Tettamanzi ha rappresentato questa istanza anche nell’episcopato italiano, con interventi che hanno richiamato continuamente i rapidi mutamenti, che esigevano un nuovo modo dell’annuncio del Vangelo, per renderlo presente alla coscienza delle persone. In particolare, nel Convegno ecclesiale di Verona ha «accelerato l’ora dei laici», perché ricuperassero soggettività nella Chiesa e nel mondo.
Desidero ora, tuttavia, fermarmi su tre gesti che sembrano singolari, ma che suggeriscono visivamente il senso della sua preoccupazione pastorale.
Il primo gesto riguarda le famiglie in difficoltà, separate, divorziate, risposate, in qualche modo colpite nei loro affetti e relazioni. La lettera Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito è forse il testo più pastorale che il Cardinale abbia scritto. Pur rimanendo rigorosamente fedele alla dottrina e alla prassi vigente della Chiesa, il Vescovo scrisse la lettera con il cuore in mano, capace di farsi ascoltare e di trasmettere alla coscienza delle persone il senso evangelico dell’amore tra uomo e donna. È un testo che ciascuno (appunto!) può prendere in mano, nel quale la verità dell’esistenza cristiana e della vita di coppia e famiglia è circondata dall’amore per il “cuore ferito”, per le storie di disagio, rottura, solitudine, per l’educazione dei figli e del loro futuro. Egli sapeva guidare la sua Chiesa e i cristiani a non perdere la stima nella santità del matrimonio. Nello stesso tempo spronava ad aver cura delle situazioni spezzate, a essere una Chiesa accogliente, una famiglia aperta. Chiesa e famiglia che imparano che la sofferenza dell’altro è un modo per scoprire anche la forza e la bellezza della propria fedeltà. Non è necessario – sembrava dire – esser duri con chi ha fallito, per difendere la bontà della propria relazione, ma l’attenzione evangelica libera il cuore per sentire anche la propria fedeltà come un dono da ricevere sempre da capo. Molte coppie in difficoltà hanno ringraziato per questo scritto, che resta un modello per una Chiesa evangelica.
Il secondo gesto è “l’invenzione” del Fondo Famiglia-Lavoro. Nella notte di Natale del 2008, nel pieno della crisi economica, il Cardinale sentì come un impulso della mente e del cuore rispondere a questa semplice domanda: «Io, come Vescovo di Milano, che cosa posso fare?». Le domande semplici non sono mai banali, perché danno da pensare, ma soprattutto muovono ad agire. E con prontezza fulminea, in pochi giorni – come si usa a Milano – il Vescovo passò dall’intuizione al progetto. E poi alla sua realizzazione. Coinvolgendo nel suo entusiasmo non solo le istituzioni che potevano dare un contributo significativo, ma inserendosi nel tessuto capillare delle parrocchie della Diocesi per far circolare la linfa vitale sia dell’ascolto dei bisogni, sia della risposta di aiuto. Tutto ciò ci ha richiamato alla sobrietà del nostro stile di vita e al senso di responsabilità e di solidarietà che nei momenti di crisi sembra farsi più scarso e talvolta scomparire.
Il terzo gesto si riferisce alla difesa dell’accoglienza e della dignità degli immigrati, di qualsiasi condizione e religione fossero. È stato l’aspetto che ha fatto più rumore e ha generato anche qualche incomprensione e avversione. Il Cardinale sapeva, però, che molti di questi immigrati – soprattutto a Milano e nelle grandi città – appartengono già al tessuto vivo della vita civile. Egli non ha aspettato che potessero essere considerati una “risorsa” per favorirne l’accoglienza e il rispetto, ma, nella scia della grande tradizione dei Vescovi ambrosiani, proclamò che bisognava accogliere «i poveri che sono sempre con voi». Forse perché sapeva che l’altro, il diverso, lo straniero, ci fa paura se visto da lontano, ma diventa prossimo se avvicinato, guardato in faccia, aiutato a trovare dignità, a suscitare anche in lui risposta, collaborazione e responsabilità. Il Cardinale ci disse che bisognava avere il coraggio di accoglierli gratuitamente, per riaverli poi cittadini e prossimi, integrati e responsabili. Partecipi della stessa vita della città e della società.
Tre piccoli grandi gesti questi, che costituiscono quasi una finestra discreta per cogliere l’animo buono e il cuore pastorale del Vescovo Dionigi. Di quel Vescovo che, quando iniziava a parlare, mandava il suo cordiale saluto «a tutti e a ciascuno!». Gliene siamo grati.