«Gli africani attendono con fiducia e ottimismo i risultati del Sinodo. E chiedono di essere riconosciuti come persone, nonostante la povertà». A parlare è il cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi (Kenya), a pochi giorni dall’apertura della seconda Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi (4-25 ottobre), centrata sul tema “La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo (Mt 5,13-14)”.
Cosa significa, per la Chiesa africana, parlare di giustizia e riconciliazione in questo momento storico?
Il Sinodo arriva in un periodo molto opportuno. Parlare, come Chiesa, di giustizia e riconciliazione, è utile per cercare di capire come il popolo africano può impegnarsi in questo senso. Sarà molto importante perché, a distanza di quindici anni dal primo Sinodo, ci sono stati molti conflitti e ingiustizie tra i popoli, anche all’interno dei Paesi stessi.
La comunità cristiana africana è informata e interessata al Sinodo?
In genere la preparazione è stata buona, ma dipende dalle nazioni. In Kenya è stato chiesto ad ogni provincia di fare il necessario per le risposte all’Instrumentum laboris. Si è arrivati anche in alcune piccole parrocchie e comunità cristiane. Gli africani attendono con fiducia ed ottimismo i risultati del Sinodo. E chiedono di essere riconosciuti come persone nonostante la povertà.
L’Africa rimarrà cristiana nonostante l’avanzare di materialismo e sètte?
Penso proprio di sì. I missionari hanno piantato in Africa un seme molto difficile da estirpare. Il nostro orgoglio di essere cristiani si manifesta nel voler vivere pienamente l’eredità lasciata dai missionari. Ci saranno delle sfide ma non vogliamo perdere la speranza. Anche se molto dipenderà dal tipo di pastori. Ecco perché puntiamo molto l’accento sulla formazione dei nostri sacerdoti, religiosi e religiose. Se ben formati possono essere dei veri strumenti di evangelizzazione. Anche i laici devono capire che hanno la responsabilità di manifestare la loro fede attraverso una vita autentica.
Dite anche molti “no” ai candidati al sacerdozio?
Certo. Anche se dipende dai formatori e dai vescovi. In Kenya siamo stati molto chiari: dobbiamo essere molto attenti perché la vita sacerdotale non è semplicemente una professione ma uno stato di vita che va vissuto in modo tale che gli altri vedano in loro la presenza di Dio. Si tratta della vita di una persona: a seconda di ciò che sceglie sarà contento o scontento. E se è scontento sarà molto difficile essere utili nell’opera di evangelizzazione. Le vocazioni, comunque sia, ci sono. A Nairobi abbiamo più di 80 seminaristi maggiori.
Quali situazioni di conflitto in Africa vi preoccupano maggiormente?
I conflitti interni, i migranti espulsi dal proprio Paese, forse a causa del tribalismo e delle religioni. Dalla Somalia, ad esempio, tanti musulmani sono stati mandati in Kenya. Questo ci preoccupa molto: quando in un Paese non c’è coabitazione, non ci si accetta a vicenda, niente può andare avanti in una maniera giusta e buona.
E le ondate migratorie verso l’Europa, i respingimenti in mare?
Questo tipo di migrazioni tocca molto di più i Paesi più vicini all’Europa. I Paesi di accoglienza dovrebbero, in ogni caso, basare le loro decisioni sulla dignità della persona umana. Questo deve essere il principio fondamentale. Poi, se ci sono delle paure da parte degli europei, bisognerebbe mettere in atto degli strumenti di prevenzione per proteggere la serenità del Paese che accoglie senza negare la dignità dei migranti. Se c’è la buona volontà dei Paesi di provenienza e di arrivo si possono trovare delle soluzioni che salvaguardino la dignità delle persone.
Quanto è importante il rapporto Europa-Africa? Come impostarlo in modo giusto?
Siamo arrivati a un punto in cui ognuno ha bisogno dell’altro, quindi dobbiamo cercare di camminare insieme, per non fare in modo che un continente soffra mentre l’altro sta solo a guardare. A questo punto è chiaro che abbiamo bisogno ognuno dell’altro, perché ogni continente ha la sua ricchezza e la sua povertà. Nessuno può eliminare la propria povertà senza la presenza e la ricchezza dell’altro. Vorremmo vedere più comunione e il riconoscimento della dignità degli uni e degli altri.
Quali sono le ricchezze più evidenti di questo continente così giovane?
Siamo poveri materialmente, ma la nostra cultura ha tanti valori: se vengono recepiti in Europa, o anche in Asia, possiamo diventare tutti più forti. A quel punto potremo arrivare ad una situazione senza sfruttamento. Un esempio: i contadini lavorano tanto per produrre caffè ma ciò che ricevono come corrispettivo è pochissimo. Bisogna trovare il modo che si possa vedere il valore e il frutto di tutto quel lavoro.
Poi c’è lo sfruttamento del petrolio e delle pietre preziose, la corruzione della classe dirigente…
Già. Ci sono africani che rubano i soldi del Paese e li investono all’estero mentre la gente è povera e i bambini non possono andare a scuola. C’è ancora molto da fare, molte sfide… Ma siamo pronti ad accettarle. «Gli africani attendono con fiducia e ottimismo i risultati del Sinodo. E chiedono di essere riconosciuti come persone, nonostante la povertà». A parlare è il cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi (Kenya), a pochi giorni dall’apertura della seconda Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi (4-25 ottobre), centrata sul tema “La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo (Mt 5,13-14)”.Cosa significa, per la Chiesa africana, parlare di giustizia e riconciliazione in questo momento storico?Il Sinodo arriva in un periodo molto opportuno. Parlare, come Chiesa, di giustizia e riconciliazione, è utile per cercare di capire come il popolo africano può impegnarsi in questo senso. Sarà molto importante perché, a distanza di quindici anni dal primo Sinodo, ci sono stati molti conflitti e ingiustizie tra i popoli, anche all’interno dei Paesi stessi.La comunità cristiana africana è informata e interessata al Sinodo?In genere la preparazione è stata buona, ma dipende dalle nazioni. In Kenya è stato chiesto ad ogni provincia di fare il necessario per le risposte all’Instrumentum laboris. Si è arrivati anche in alcune piccole parrocchie e comunità cristiane. Gli africani attendono con fiducia ed ottimismo i risultati del Sinodo. E chiedono di essere riconosciuti come persone nonostante la povertà.L’Africa rimarrà cristiana nonostante l’avanzare di materialismo e sètte?Penso proprio di sì. I missionari hanno piantato in Africa un seme molto difficile da estirpare. Il nostro orgoglio di essere cristiani si manifesta nel voler vivere pienamente l’eredità lasciata dai missionari. Ci saranno delle sfide ma non vogliamo perdere la speranza. Anche se molto dipenderà dal tipo di pastori. Ecco perché puntiamo molto l’accento sulla formazione dei nostri sacerdoti, religiosi e religiose. Se ben formati possono essere dei veri strumenti di evangelizzazione. Anche i laici devono capire che hanno la responsabilità di manifestare la loro fede attraverso una vita autentica.Dite anche molti “no” ai candidati al sacerdozio?Certo. Anche se dipende dai formatori e dai vescovi. In Kenya siamo stati molto chiari: dobbiamo essere molto attenti perché la vita sacerdotale non è semplicemente una professione ma uno stato di vita che va vissuto in modo tale che gli altri vedano in loro la presenza di Dio. Si tratta della vita di una persona: a seconda di ciò che sceglie sarà contento o scontento. E se è scontento sarà molto difficile essere utili nell’opera di evangelizzazione. Le vocazioni, comunque sia, ci sono. A Nairobi abbiamo più di 80 seminaristi maggiori.Quali situazioni di conflitto in Africa vi preoccupano maggiormente?I conflitti interni, i migranti espulsi dal proprio Paese, forse a causa del tribalismo e delle religioni. Dalla Somalia, ad esempio, tanti musulmani sono stati mandati in Kenya. Questo ci preoccupa molto: quando in un Paese non c’è coabitazione, non ci si accetta a vicenda, niente può andare avanti in una maniera giusta e buona.E le ondate migratorie verso l’Europa, i respingimenti in mare?Questo tipo di migrazioni tocca molto di più i Paesi più vicini all’Europa. I Paesi di accoglienza dovrebbero, in ogni caso, basare le loro decisioni sulla dignità della persona umana. Questo deve essere il principio fondamentale. Poi, se ci sono delle paure da parte degli europei, bisognerebbe mettere in atto degli strumenti di prevenzione per proteggere la serenità del Paese che accoglie senza negare la dignità dei migranti. Se c’è la buona volontà dei Paesi di provenienza e di arrivo si possono trovare delle soluzioni che salvaguardino la dignità delle persone.Quanto è importante il rapporto Europa-Africa? Come impostarlo in modo giusto?Siamo arrivati a un punto in cui ognuno ha bisogno dell’altro, quindi dobbiamo cercare di camminare insieme, per non fare in modo che un continente soffra mentre l’altro sta solo a guardare. A questo punto è chiaro che abbiamo bisogno ognuno dell’altro, perché ogni continente ha la sua ricchezza e la sua povertà. Nessuno può eliminare la propria povertà senza la presenza e la ricchezza dell’altro. Vorremmo vedere più comunione e il riconoscimento della dignità degli uni e degli altri.Quali sono le ricchezze più evidenti di questo continente così giovane?Siamo poveri materialmente, ma la nostra cultura ha tanti valori: se vengono recepiti in Europa, o anche in Asia, possiamo diventare tutti più forti. A quel punto potremo arrivare ad una situazione senza sfruttamento. Un esempio: i contadini lavorano tanto per produrre caffè ma ciò che ricevono come corrispettivo è pochissimo. Bisogna trovare il modo che si possa vedere il valore e il frutto di tutto quel lavoro.Poi c’è lo sfruttamento del petrolio e delle pietre preziose, la corruzione della classe dirigente…Già. Ci sono africani che rubano i soldi del Paese e li investono all’estero mentre la gente è povera e i bambini non possono andare a scuola. C’è ancora molto da fare, molte sfide… Ma siamo pronti ad accettarle. – – Con un cuore positivo