«Vedo in parecchi cappellani la presenza di uno spirito e di una disponibilità che potrebbero benissimo farli inserire nel Consiglio presbiterale e in quello pastorale diocesano. Ma facciamo i passi secondo la gamba…». Don Giancarlo Quadri, responsabile della Pastorale dei migranti, è reduce dalla riunione con i cappellani etnici, tenutasi la settimana scorsa in Curia. E avanza una proposta che è il simbolo di un cammino che procede, anche con difficoltà, nell’unica Chiesa, al di là della propria origine. Una riflessione proprio alla vigilia delle Veglie missionarie di sabato prossimo. La missione è anche sotto casa.
Don Quadri, quale ruolo svolgono i cappellani etnici?
La Diocesi da tanto tempo ha scelto di chiamare, soprattutto per quelle etnie che hanno grandi difficoltà di linguaggio e una differenza di cultura molto evidente, cappellani della loro stessa etnia. In diocesi sono una ventina per le comunità asiatiche, ma anche africana o rumena. Comunque la scelta di fondo non è quella di mantenere le comunità etniche, ma di inserirle nella pastorale ordinaria. Il cappellano è una persona essenziale in questo processo: se si riesce a “convincerlo” a compiere questo cammino, l’integrazione diviene possibile.
Seguono il cammino diocesano?
Certo. Con questi cappellani ogni mese ragioniamo sui temi della pastorale. All’inizio dell’anno stiamo esaminando l’input che ci ha dato il Cardinale: tra tutti i grandi discorsi sia del volumetto Pietre vive, sia dell’altro La Chiesa di Antiochia, abbiamo scelto e stiamo approfondendo diversi aspetti molto importanti: tra gli altri, come organizzare la comunità etnica nelle parrocchie e non staccata dal contesto diocesano in modo che si compiano questi passi.
Com’è oggi la situazione?
Proprio nel dibattito emergeva tutta la difficoltà di questo cammino, ma anche la buona volontà. Per esempio, le comunità filippine – al momento sono otto a Milano – sentono la bellezza del ritrovarsi per cantare, far catechesi, celebrare l’Eucaristia nella loro lingua e non capiscono che la presenza della parrocchia li sollecita anche ad essere un esempio e a iniziare quel giusto dialogo. A volte si lamentano un po’: «Come mai non si accorgono neppure di noi? In una parrocchia per tre anni abbiamo fatto un programma sulla famiglia. La comunità italiana vedeva che anche noi ci davamo da fare sulla famiglia, però non abbiamo mai ricevuto un invito per riunirci insieme a tutte le famiglie. Questo ci sembra un po’ strano…».
Da parte delle comunità cristiane ci dovrebbe essere più accoglienza?
Si sa che è un cammino lungo, però va fatto. Bisogna lavorare su questo: se noi ci aspettiamo che l’integrazione e il vivere insieme ci cadano dall’alto, allora aspetteremo fino all’infinito.
C’è un altro aspetto che avete affrontato?
Sì, la formazione dei laici. La Diocesi ha in programma quest’anno la settimana proposta dal Cardinale nel Percorso pastorale: anche loro partecipino all’iniziativa. Bisognerebbe prendere queste persone che lavorano bene a livello di catechesi, di celebrazioni, di Bibbia, di tempo libero. Abbiamo persone eccezionali in queste comunità.
Com’è l’esperienza con i cinesi?
Fanno fatica: srilanchesi, cinesi, coreani preferiscono ancora la propria etnia. Ho raccomandato che i Battesimi ad esempio vengano accompagnati nelle parrocchie, che il cappellano parli con il parroco in modo da incominciare i Sacramenti dell’iniziazione ai ragazzi negli oratori.
Sabato 17 ottobre si terranno le Veglie missionarie: come pensare alla missione sotto casa?
In un duplice senso: prima di tutto possiamo accorgerci quanto il mondo sia grande e forse non ce ne siamo accorti abbastanza. Il Vangelo non ha confini, è stato scritto per tutto il mondo. In secondo luogo, che i missionari il Signore li chiama dappertutto: queste comunità sono molto missionarie nel nostro contesto. Dunque, sia in Italia sia fuori siamo tutti in missione. Il cristiano deve essere missionario e l’immigrato ci aiuta a riscoprire la dimensione missionaria nella Chiesa».
C’è più sensibilità missionaria lontana e invece la vicinanza disturba?
Esatto, bisogna staccarci da una visione romantica e semieroica. La missione è la vita del cristiano. «Vedo in parecchi cappellani la presenza di uno spirito e di una disponibilità che potrebbero benissimo farli inserire nel Consiglio presbiterale e in quello pastorale diocesano. Ma facciamo i passi secondo la gamba…». Don Giancarlo Quadri, responsabile della Pastorale dei migranti, è reduce dalla riunione con i cappellani etnici, tenutasi la settimana scorsa in Curia. E avanza una proposta che è il simbolo di un cammino che procede, anche con difficoltà, nell’unica Chiesa, al di là della propria origine. Una riflessione proprio alla vigilia delle Veglie missionarie di sabato prossimo. La missione è anche sotto casa.Don Quadri, quale ruolo svolgono i cappellani etnici?La Diocesi da tanto tempo ha scelto di chiamare, soprattutto per quelle etnie che hanno grandi difficoltà di linguaggio e una differenza di cultura molto evidente, cappellani della loro stessa etnia. In diocesi sono una ventina per le comunità asiatiche, ma anche africana o rumena. Comunque la scelta di fondo non è quella di mantenere le comunità etniche, ma di inserirle nella pastorale ordinaria. Il cappellano è una persona essenziale in questo processo: se si riesce a “convincerlo” a compiere questo cammino, l’integrazione diviene possibile.Seguono il cammino diocesano?Certo. Con questi cappellani ogni mese ragioniamo sui temi della pastorale. All’inizio dell’anno stiamo esaminando l’input che ci ha dato il Cardinale: tra tutti i grandi discorsi sia del volumetto Pietre vive, sia dell’altro La Chiesa di Antiochia, abbiamo scelto e stiamo approfondendo diversi aspetti molto importanti: tra gli altri, come organizzare la comunità etnica nelle parrocchie e non staccata dal contesto diocesano in modo che si compiano questi passi.Com’è oggi la situazione?Proprio nel dibattito emergeva tutta la difficoltà di questo cammino, ma anche la buona volontà. Per esempio, le comunità filippine – al momento sono otto a Milano – sentono la bellezza del ritrovarsi per cantare, far catechesi, celebrare l’Eucaristia nella loro lingua e non capiscono che la presenza della parrocchia li sollecita anche ad essere un esempio e a iniziare quel giusto dialogo. A volte si lamentano un po’: «Come mai non si accorgono neppure di noi? In una parrocchia per tre anni abbiamo fatto un programma sulla famiglia. La comunità italiana vedeva che anche noi ci davamo da fare sulla famiglia, però non abbiamo mai ricevuto un invito per riunirci insieme a tutte le famiglie. Questo ci sembra un po’ strano…».Da parte delle comunità cristiane ci dovrebbe essere più accoglienza?Si sa che è un cammino lungo, però va fatto. Bisogna lavorare su questo: se noi ci aspettiamo che l’integrazione e il vivere insieme ci cadano dall’alto, allora aspetteremo fino all’infinito.C’è un altro aspetto che avete affrontato?Sì, la formazione dei laici. La Diocesi ha in programma quest’anno la settimana proposta dal Cardinale nel Percorso pastorale: anche loro partecipino all’iniziativa. Bisognerebbe prendere queste persone che lavorano bene a livello di catechesi, di celebrazioni, di Bibbia, di tempo libero. Abbiamo persone eccezionali in queste comunità.Com’è l’esperienza con i cinesi?Fanno fatica: srilanchesi, cinesi, coreani preferiscono ancora la propria etnia. Ho raccomandato che i Battesimi ad esempio vengano accompagnati nelle parrocchie, che il cappellano parli con il parroco in modo da incominciare i Sacramenti dell’iniziazione ai ragazzi negli oratori.Sabato 17 ottobre si terranno le Veglie missionarie: come pensare alla missione sotto casa?In un duplice senso: prima di tutto possiamo accorgerci quanto il mondo sia grande e forse non ce ne siamo accorti abbastanza. Il Vangelo non ha confini, è stato scritto per tutto il mondo. In secondo luogo, che i missionari il Signore li chiama dappertutto: queste comunità sono molto missionarie nel nostro contesto. Dunque, sia in Italia sia fuori siamo tutti in missione. Il cristiano deve essere missionario e l’immigrato ci aiuta a riscoprire la dimensione missionaria nella Chiesa».C’è più sensibilità missionaria lontana e invece la vicinanza disturba?Esatto, bisogna staccarci da una visione romantica e semieroica. La missione è la vita del cristiano.